Autogrill

E’ una primavera di vento, di un forte vento, ma la mia amica Morgana non vuole rinunciare ad una gita al mare.

Si veste come nelle sue domeniche di settembre inoltrato, un camicia sbottonata, ma con un rete di nylon sulla pelle delle gambe.
Io guardo tra il mio guardaroba, un jeans e una maglietta a V, ma chiudo il secondo cassetto, non porterò il costume…

– …ma perché no? –
– …fa troppo freddo per farsi il bagno… – le rispondo.
– Non ci sono proprio più gli uomini coraggiosi dei miei romanzi… – mi replica con provocazione e sarcasmo, intanto che fruga nel penultimo cassetto per tirar fuori un doppio pezzo azzurro e turchese. Lo rotea in area con un sorriso ed uno sguardo di sfida, e nel passo lento di avvicinamento, poco dopo che mi volto non curante, sento che qualcosa mi arriva in testa. Sì, mi ha lanciato un pezzo! Per gioco, certo, il superiore per l’appunto, e appena lo raccolgo da terra e lo apro per notare quanto è striminzito, soprattutto per le sue forme, lei si avvicina e lo strappa tra le mani con un: – …dai qua! – restituendomi furtivamente un bacio sulla guancia.
Poi rapidamente mette il costume nella borsetta, guarda l’orologio, è pronta.

Partiamo.

Prendo la guida della mia barchetta verso Sestri Levante, con l’incertezza che possa piovere da un momento all’altro. La sua mano sinistra tiene per tutto il tempo il capello giallo e con la destra abbraccia il poggiatesta del mio sedile.

Mi parla del viaggio che ha programmato per fine agosto, una crociera greca, vorrebbe che l’accompagnassi, ma non posso assentarmi dagli impegni di lavoro. – Mai che vieni una volta con me, mi lasci sempre ai marinai… – sussurra con una voce e un’espressione di un finto lamento smascherato da un sorriso accennato per confermare nell’ironia qualcosa d’intentato o di davvero accaduto in qualche sua crociera.

– Metto benzina – e inserisco la freccia per voltare a destra.
Mi rifornisco al self-service, tanto per risparmiare qualche centesimo in più che non risolverà di certo il caro benzina.

Prima di partire Morgana vuole passare ai servizi, la dovrei seguire poiché mi chiede di sorvegliarle la porta del bagno.
Faccio storie, anche perché: che vergogna c’è tra donne? E poi ci saranno certamente le serrature! Ma inutile discutere con lei quando fa così, con una certa risolutezza, che diviene qualche volta un ordine o un’azione intraprendente, come ora, che mi prende per mano come fossi un ragazzino trascinandomi verso i servizi con la sagoma dalle forme femminili.

Entro, con imbarazzo proprio nel momento in cui una donna sta per uscire da una porta in fila tra le tante, con uno sguardo intollerante.
Morgana mi chiede di reggerle la borsetta. Apre la porta ed effettivamente noto che la chiusura è rotta. Saranno rotte anche tutte le altre? Mi domando e mi prende curiosità di verificare, ma mi arresto poiché non sia mai cosa mi aspetta dietro la porta; potrei finire per essere scambiato per un maniaco e ricevere qualche insulto.

Si sentono i rumori delle vesti di Morgana, poi il suono dell’acqua che scende in disordine. Fortunati noi uomini che possiamo almeno prendere la mira ed attutire il rumore sulla ceramica, penso.
Finito il rumore sento la sua voce occorre oltre la porta che ci separa…

– Riccardo? Nella borsetta dovrebbero esserci dei fazzolettini, passamene uno… –

Apro la chiusura a cerniera e prendo a frugare oltre il costume, facendomi varco tra il lucida labbra, gli specchietti, dei bigliettini, il portafoglio, cellulare, delle sfere d’acciaio collegate da una corda, qualcosa che forse non devo tropo chiedermi cosa sia… c’è di tutto… ed ecco che finalmente trovo uno scompartimento dove è situato un pacchetto di clinex. Apro il pacchetto e sorreggendo tutto il resto nell’altra mano, dischiudo leggermente la porta cercando di far passare solo il braccio con il fazzoletto…

– …ma cosa fai!? – esclama deridendo.
– ma come cosa faccio? Non mi hai detto di passarti un fazzoletto –
– Sì, appunto, ma se non entri non ci arrivo. –

Ritiro il braccio, come fosse una proboscide acrobaticamente allungata per raggiungerla. Apro la maniglia ed entro.
– …Chiudi la porta e tienila da dentro così non entra nessuno e dai qui… – Allunga una mano e prende il fazzoletto che riesce ora a raggiungere perfettamente.

Sto per dirle che non mi sembra il caso di rimanere lì, ma so che poi mi direbbe scocciata frasi che conosco già a memoria: che faccio troppe storie, che io non sono un estraneo dopo tutti questi anni che ci conosciamo, che sono un amico speciale e che non si vergogna di me. Allora sto zitto e lei difatti si comporta non curante con disinvoltura, come se non esistessi, come se fosse tutto normale.

E’ seduta sulla tazza coperta da uno di quelle carte copri-water monouso, ma il sostegno della carta igienica ha solo un cartoncino spoglio.
Si cala ancora un po’ lo slip di pizzo che rimane sostenuto dai fianchi larghi ed impigliato tra le cosce leggermente divaricate; si alza leggermente con impazienza, sorreggendo con l’altro braccio la gonna bianca che tenta di cadere.

Dà ancora qualche strattonata allo slip con la mano che tiene il fazzoletto ma sembra sia impigliato in qualcosa…
Aiuto…– dice come un intercalare a cui non do importanza, ma poi aggiunge – Ma mi vuoi aiutare…!? – e sbuffa quasi scocciata. – Stai calma…– mi avvicino, lasciando la maniglia della porta e continuando a sorreggere fazzoletti e borsetta con l’altra mano come un acrobata.

Afferro lo slip imprigionato e portando la mano sotto il margine ultimo della gonna, mi accorgo che si è fermato sullo spigolo di un reggicalze. Finisco forse anche per sfiorare qualcosa di troppo, le mani frugano in modo imbarazzante sotto la stoffa, sentono caldo, umido, lo libero, afferro un lembo e lo abbasso con un movimento rapido per tornare prontamente al mio ruolo di guardiano della porta. Devo essere ormai tutto rosso in volto.

Morgana passa il fazzoletto bianco tra le cosce rotonde verso il buio dell’inguine e l’ombra della gonna che ondeggia sulle gambe. Distolgo lo sguardo, ma subito mi reclama un altro fazzoletto; il pacchetto di clinex lo tengo ancora in mano.

– Ma ti sei messa il reggicalze per andare al mare? –
– E dunque? Lo sai come sono? Oppure non lo hai ancora capito… io non metto calze normali, non faccio cose normali e poi a te cosa importa di cosa mi metto sotto la gonna? Dai qui… – una seconda strattonata per prendermi il fazzoletto, che si strappa lasciando un piccolo quadratino sulle mia dita che rimangono immobili, ma questa volta non è scocciata, me ne accorgo perché fa un leggero sorriso sottile, come se la cosa la divertisse.
Finisce di pulirsi, poi si alza e tira su lo slip con tutte e due le mani, fa un simmetrico movimento di fianchi e bacino che fa sistemare meglio il pizzo trasparente sulle membra e le natiche precedentemente nude. In quel momento riesco ad osservare bene il reggicalze.

Poi la gonna bianca che teneva alzata, cade in un colpo secco come la caduta di sipario.
Si volta con una mossa di scatto, un volteggio ed un leggero scocco di tacco, una piroetta da tanghera che le apre lo spacco per dare visione l’ultima volta ancora alla bretella blu che serra una calza; un pugno contro lo scarico di forza seguita dalla sua esclamazione ultima:

Fatto! Ripartiamo Riccardo! Andiamo al mare.

Rewind

Non esistono delle stagioni, il tepore metropolitano è quasi sempre lo stesso durante tutto l’anno. Una luce pallida, artificiale, evidenzia le tinte della rete di Milano: la gialla, la rossa, la verde. Le musiche sono sempre le stesse, fisarmoniche o violini, timbri che riconducono alle melodie polacche di Bregovic.

E torna come un rewind quel breve racconto, un disco in vinile che continua a suonare non annoiando mai nessun ascoltatore. Lo hanno udito, lo hanno immaginato, lo hanno invidiato… lo hanno persino copiato; e noi lo abbiamo lasciato fare, perché eravamo soltanto noi ad averlo davvero vissuto.

Lui aveva trent’anni, una macchina fotografica, un treno da perdere. Lei di anni ne aveva trentotto, il treno lo aveva già perso, ma non lo sapeva ancora.

Lui scendeva le scale della metropolitana.

Lei le saliva. Lui la vide, lei lo vide… Milano si fermò.

Lui accarezzò con lo sguardo i quindici denari di lucido nylon autoreggente che salivano al piano superiore.

Scavalcò il mancorrente.

Lei insieme alla testa e al treno perse le chiavi di casa. Non si presentò mai all’appuntamento.

I loro pensieri trovarono l’intreccio in un angolo di sotterraneo, i loro passi salirono… salirono su in superficie, fino a lasciare impronte parallele e indelebili nella neve di un parco.

Per un anno non uscirono dalla mansarda del suo Atelier, ma non ce se accorsero mai.

Faceva freddo e faceva anche molto bohémien.

Sotto ordinazioni qualcuno portava piatti da mangiare e libri da leggere. Nonostante tutto mangiavano e con molto appetito.

E tra un delicato amplesso e un fotografare d’istinto, sfiniti di piacere, si leggevano a vicenda qualcosa, a volte persino durante, a riprova che le due cose non erano poi del tutto incompatibili.

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La ragazza dei crediti

Dall’inizio di quel timido capolino attraverso la porta, sei entrata ed uscita dalla nostra stanza non ricordo più quante volte, una decina? Non le ho contate ad essere sincero ed ero anche un po’ perso o più opportunamente concentrato sui tanti ragionamenti all’ordine del giorno.

La riunione era iniziata alle 9:30; c’era ancora molto da discutere malgrado le prime due ore già trascorse. Lo startup della nuova banca ci impegnava su troppe criticità ancora da smarcare, quale sarebbe stato il target dei clienti campione? Quali i criteri per la generazione dei portafogli?

Sei entrata per utilizzare la fotocopiatrice, la più vicina al tuo ufficio, ed è stato in quel momento che la cravatta mi stringeva al collo più del normale e l’ambiente mi sembrava chiuso di un’aria troppo pesante.

Sono bastati venti metri al massimo di quel tuo passo deciso, quei movimenti perfetti, stretti in un tailleur blu, le gambe nude – alte – che laceravano l’aria con un fruscio di pelle… ed un sorriso di padronanza che mi ha lasciato disorientato.

Roberto e Mario che analizzavamo gli ultimi flussi di dati, si sono arrestati per fissarmi attendendo una risposta ad una domanda posta che non avevo udito in alcun modo.

– ma sta seguendo Di Carlo? –

no, scusate, ma oggi il condizionatore è rotto vero? –

Loro non mi hanno di certo capito, ma il tuo accenno di sorriso mentre eri di spalle a loro, ha segnato un sottile traguardo di complicità.

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Scambi di sguardi

Il disegno di Laliberte poteva essere presagio su una scena futura, ma io non potevo immaginarlo…
Ora che da giorni ormai sono partito, lontano dai binari di Milano, allora ripenso su quanto accaduto.

Ripenso a quell’ultima scena veduta: il buio dell’ora solare, le lancette che segnano le nove e la pioggia battente.
Il mio indugio al riparo del porticato della stazione ed il vederla in attesa della ripartenza del treno appena fermatosi al nostro comune arrivo. Il suo allontanamento nello svincolo di un sovrappasso prudente, oltre i binari, verso il vecchio passaggio dismesso che porta in via Antonio Gramsci.
L’ombrello spiegato ed i suoi passi incerti tra una pozza d’acqua ed uno snodo di metallo.

Avrei voluto seguirla, avrei dovuto seguirla?

Il desiderio di riuscire a trovare un punto, un percorso comune, uno spunto di recapito per una lettera.
Un foglio di carta scritto, un pensiero tra un viaggio, tra un ritardo, tra uno scambio di rotaie ed una coincidenza… una coincidenza di incroci tra treni…
…e sguardi… tra noi.

Le scale

Quando ci si appassiona di un desiderio inavvicinabile, le proprie certezze decadono ritrovandosi in una situazione d’indefinito… d’incerto. E così malgrado sia una persona sicura di me, ultimamente, barcollo tra un’apprensione non definita, di cui non ho conoscenza neppure della fine ultima.

Le scale che portano in mansarda sono di noce, i gradini ripidi ed il passaggio è largo solo poco più di settanta centimetri.
Mi precedi con un tacco che fa suonare il legno del primo gradino; al quinto le pieghe plissettate della gonna s’incurvano lasciando margine di veduta all’avvallamento superiore delle tue gambe. Io sono ancora al primo, con i ricami che mi arrivano quasi alla gola.

Non intendo se perdo l’equilibrio per questo, ma inciampo in un gradino di turbamento, la pianta in cuoio della scarpa batte un colpo di caduta, ti allarma in uno scatto tempestivo per esclamare – attenzione! –

Nella stessa istantanea fisso l’attenzione di quel tuo movimento
fulmineo, che trasforma in un’elica il lembo di stoffa plissettata, prendendo il volo in alta quota e svestendo ancora una volta gli estremi della tentazione.

Rimango in ginocchio, non so se ferito fisicamente od emotivamente, ma riconosco tutta la fragilità di questo disequilibrio e di tutte le volte che ho perduto sostegno in una qualsiasi tua manifestazione involontaria, seduttiva.

Rimango in ginocchio, sorreggendomi con una mano sul corrimano e accorgendomi che l’altra mano si è sorretta involontariamente alla tua caviglia, smagliando un poco la tua calza scura.

Una stretta troppo forte di concitazione.

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Fotografarti

A te piaceva farti fotografare, erano pomeriggi d’estate di un caldo boccheggiante.
Ti vestivi poco, abitini a fiori, trasparenze di luce lasciavano percepire la pelle, barlumi sui capelli rame e riverberi di chiaro sul tuo volto sereno.

Ti piaceva metterti in posa per gioco ed io che incalzavo per vederti più naturale. Per questo, in alcuni istanti, fingevi di non osservarmi ed io che t’impressionavo su pellicola, allegra nella tua finzione alla spontaneità, istantanee di menage fermate velocemente – negativi in bianco e nero… dove saranno? Fotografie sviluppate e adesso disperse in scatole chiuse del tuo ultimo trasloco.

– Stai fermo e fotografami senza toccarmi, fai il professionista e guardami.. sono impalpabile, scrutami.. cercami… ed amami con gli occhi… cambiami, fammi bella, fammi diventare un frammento della tua espressione, fammi essere leggera, fammi essere vanitosa, fammi essere tua… –

Ed io scattavo, ansimando scattavo, afferravo la tua luce e mi pulsavano le vene… sentivo qualcosa di estraneo fluire nei capillari…

…forse era così… forse nel mio sangue, in quel momento, scorreva tutta la tua irrefrenabile tentazione. Era il desiderio, principio di ogni compiacimento.

 

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Coniugazioni verbali

Quello sarebbe stato l’unico modo e l’unico tempo.

Niente imperfetto, che già contiene l’errore nel nome.

Non voleva il vincolo di un condizionale o l’ipotesi di un congiuntivo ormai in disuso.

Aveva vietato trapassato remoto e passato prossimo con le loro commemorazioni e i loro rimpianti, bandito l’ansia di un futuro fatto per costruire e l’uso dispotico dell’imperativo.

–La baciò all’indicativo presente, come se dovesse durare per sempre, e quel bacio le restò dentro per l’eternità. –

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Con te

Con te ho imparato il senso dell’attesa, quell’attesa che incentiva il desiderio, che crea importanza per il percorso e non per l’arrivo.
Ho imparato a rassicurarti, a proteggerti, a sconfiggere tutte le tue paure, a sentirti sicura, a sentire di non dovermi perdere mai.

Ho imparato i vuoti che ho dentro, che hai dentro… e come è facile e sorprendente poterli riempire insieme.

Ho imparato ad immaginare più che vedere, a ricercare dettagli sensuali più che esplicitamente troppo concreti.

Ho imparato a farmi travolgere dalle emozioni, del desiderio, ma allo stesso tempo senza mai dimenticare l’importanza di un sentimento.

Ho imparato che le certezze qualche volta cadono e che quelle situazioni che mai avrei pensato capitassero, possono diventare per chiunque realtà.

Ho imparato a comprendere…
…comprendere cosa significava ‘aspettami’, cosa significava ‘rimaniamo amici’, cosa significava ‘dammi tempo’. Ho imparato a desiderarti, a conoscere tutti i tuoi desideri, ho imparato il ruolo che mi davi, ho imparato a rapirti con le fantasie, ad andare oltre… ….oltre quei confini dove nessuno di noi due era andato mai.

Ho imparato a legarti i polsi e slegarti la mente; non per privarti dei movimenti, ma per sottometterti alle sole mie volontà, in quel mistero inesplorato, di abbandono alle numerose incognite della mia fantasia, verso un’obbligata dipendenza delle mie azioni, che piegano spesso le tue tempre, quando ormai vinta dalle mie scelte, senza più resistenze, mi fai osare tutto.

Abbiamo imparato la fiducia che porta a questo senso di abbandono estremo.

…quante cose ancora impareremo….?

 

Ho legato i tuoi polsi
slegato la tua mente
non per privarti dei gesti
ma per sottometterti
alle volontà sole
in quel mistero inesplorato
di abbandono e custodia
alle numerose incognite della fantasia
verso un’obbligata dipendenza delle azioni
che piegano spesso le tue tempre
quando ormai vinta dalle mie scelte
e senza più resistenze
mi fai osare tutto.

Appartenenza

Ci si appartiene quando si rispetta gli spazi altrui, si comprendono i confini, quelli violabili e quelli intoccabili.

Ci si comprende quando si desidera e si invita invece di imporre o pretendere.

Ci si appartiene quando non si fraintende, ma si intende,

…quando si ha la percezione e la consapevolezza di quello che è davvero ‘nostro’ e di quello che è solamente ‘tuo’.

Ci si appartiene quando un nome non lo si scrive o lo si pronuncia con leggerezza,

…quando mi dici – è bello quando mi chiami per nome.

Ci si appartiene quando si pensa di più ai tuoi di bisogni che hai miei,

…quando si pregiudica un po’ di se stessi per avvicinarsi di più.

Ci si appartiene quando ci si comprende, e nella parola ‘comprensione’ c’è davvero tutto.

Quando la parola del sentimento si unisce a quella del desiderio, quando lo stato d’animo si unisce al senso di eccitazione, allora si ci si appartiene, quando nulla è più scontato, nulla è più banale… nulla è povero, nulla è più vano.

Ci si appartiene quando diventa straordinario usare le parole per dirti: sei mia…

..non perché quelle parole costituiscano significato dell’essere, ma perché possano riaffermare quello che sentiamo anche nel silenzio.

Perché ci sono parole solo dette, parole scritte, parole suggerite, parole rigurgitate e riproposte ma sempre prive di ogni significato e ci sono assoluti silenzi che parlano di più, anche per tutte quelle parole non dette e non scritte… parlano per le tante azioni dimostrate…

Questo è il vero senso di appartenenza.

In viaggio

Questo uomo sul treno posa lo sguardo oltre il finestrino.
E’ qui davanti a me e finisco per studiarlo.

Ha un’aria nostalgica, forse malinconica.
Fuori piove, a dirotto.

Lo sguardo é perso nel grigio; me ne accorgo dal fatto che alberi, case, macchine sfrecciano davanti ai suoi occhi senza provocare distrazione. alcuna

I suoi occhi sono quelli della mente.
Varcano ogni possibile orizzonte, ogni cosa materiale.

É lo sguardo dell’anima quello li.

Quello scuardo che cerca nell’infinito l’inconsistenza di una realtá.

Quest’uomo varca chilometri di etere per riuscire a raggiungere un pensiero profondo.

Forse un pensiero caro, forse indispensabile alla sua vita, forse tanto inseguito e forse tanto illusorio.

Che cosa sta cercando quest’uomo?