Autogrill

E’ una primavera di vento, di un forte vento, ma la mia amica Morgana non vuole rinunciare ad una gita al mare.

Si veste come nelle sue domeniche di settembre inoltrato, un camicia sbottonata, ma con un rete di nylon sulla pelle delle gambe.
Io guardo tra il mio guardaroba, un jeans e una maglietta a V, ma chiudo il secondo cassetto, non porterò il costume…

– …ma perché no? –
– …fa troppo freddo per farsi il bagno… – le rispondo.
– Non ci sono proprio più gli uomini coraggiosi dei miei romanzi… – mi replica con provocazione e sarcasmo, intanto che fruga nel penultimo cassetto per tirar fuori un doppio pezzo azzurro e turchese. Lo rotea in area con un sorriso ed uno sguardo di sfida, e nel passo lento di avvicinamento, poco dopo che mi volto non curante, sento che qualcosa mi arriva in testa. Sì, mi ha lanciato un pezzo! Per gioco, certo, il superiore per l’appunto, e appena lo raccolgo da terra e lo apro per notare quanto è striminzito, soprattutto per le sue forme, lei si avvicina e lo strappa tra le mani con un: – …dai qua! – restituendomi furtivamente un bacio sulla guancia.
Poi rapidamente mette il costume nella borsetta, guarda l’orologio, è pronta.

Partiamo.

Prendo la guida della mia barchetta verso Sestri Levante, con l’incertezza che possa piovere da un momento all’altro. La sua mano sinistra tiene per tutto il tempo il capello giallo e con la destra abbraccia il poggiatesta del mio sedile.

Mi parla del viaggio che ha programmato per fine agosto, una crociera greca, vorrebbe che l’accompagnassi, ma non posso assentarmi dagli impegni di lavoro. – Mai che vieni una volta con me, mi lasci sempre ai marinai… – sussurra con una voce e un’espressione di un finto lamento smascherato da un sorriso accennato per confermare nell’ironia qualcosa d’intentato o di davvero accaduto in qualche sua crociera.

– Metto benzina – e inserisco la freccia per voltare a destra.
Mi rifornisco al self-service, tanto per risparmiare qualche centesimo in più che non risolverà di certo il caro benzina.

Prima di partire Morgana vuole passare ai servizi, la dovrei seguire poiché mi chiede di sorvegliarle la porta del bagno.
Faccio storie, anche perché: che vergogna c’è tra donne? E poi ci saranno certamente le serrature! Ma inutile discutere con lei quando fa così, con una certa risolutezza, che diviene qualche volta un ordine o un’azione intraprendente, come ora, che mi prende per mano come fossi un ragazzino trascinandomi verso i servizi con la sagoma dalle forme femminili.

Entro, con imbarazzo proprio nel momento in cui una donna sta per uscire da una porta in fila tra le tante, con uno sguardo intollerante.
Morgana mi chiede di reggerle la borsetta. Apre la porta ed effettivamente noto che la chiusura è rotta. Saranno rotte anche tutte le altre? Mi domando e mi prende curiosità di verificare, ma mi arresto poiché non sia mai cosa mi aspetta dietro la porta; potrei finire per essere scambiato per un maniaco e ricevere qualche insulto.

Si sentono i rumori delle vesti di Morgana, poi il suono dell’acqua che scende in disordine. Fortunati noi uomini che possiamo almeno prendere la mira ed attutire il rumore sulla ceramica, penso.
Finito il rumore sento la sua voce occorre oltre la porta che ci separa…

– Riccardo? Nella borsetta dovrebbero esserci dei fazzolettini, passamene uno… –

Apro la chiusura a cerniera e prendo a frugare oltre il costume, facendomi varco tra il lucida labbra, gli specchietti, dei bigliettini, il portafoglio, cellulare, delle sfere d’acciaio collegate da una corda, qualcosa che forse non devo tropo chiedermi cosa sia… c’è di tutto… ed ecco che finalmente trovo uno scompartimento dove è situato un pacchetto di clinex. Apro il pacchetto e sorreggendo tutto il resto nell’altra mano, dischiudo leggermente la porta cercando di far passare solo il braccio con il fazzoletto…

– …ma cosa fai!? – esclama deridendo.
– ma come cosa faccio? Non mi hai detto di passarti un fazzoletto –
– Sì, appunto, ma se non entri non ci arrivo. –

Ritiro il braccio, come fosse una proboscide acrobaticamente allungata per raggiungerla. Apro la maniglia ed entro.
– …Chiudi la porta e tienila da dentro così non entra nessuno e dai qui… – Allunga una mano e prende il fazzoletto che riesce ora a raggiungere perfettamente.

Sto per dirle che non mi sembra il caso di rimanere lì, ma so che poi mi direbbe scocciata frasi che conosco già a memoria: che faccio troppe storie, che io non sono un estraneo dopo tutti questi anni che ci conosciamo, che sono un amico speciale e che non si vergogna di me. Allora sto zitto e lei difatti si comporta non curante con disinvoltura, come se non esistessi, come se fosse tutto normale.

E’ seduta sulla tazza coperta da uno di quelle carte copri-water monouso, ma il sostegno della carta igienica ha solo un cartoncino spoglio.
Si cala ancora un po’ lo slip di pizzo che rimane sostenuto dai fianchi larghi ed impigliato tra le cosce leggermente divaricate; si alza leggermente con impazienza, sorreggendo con l’altro braccio la gonna bianca che tenta di cadere.

Dà ancora qualche strattonata allo slip con la mano che tiene il fazzoletto ma sembra sia impigliato in qualcosa…
Aiuto…– dice come un intercalare a cui non do importanza, ma poi aggiunge – Ma mi vuoi aiutare…!? – e sbuffa quasi scocciata. – Stai calma…– mi avvicino, lasciando la maniglia della porta e continuando a sorreggere fazzoletti e borsetta con l’altra mano come un acrobata.

Afferro lo slip imprigionato e portando la mano sotto il margine ultimo della gonna, mi accorgo che si è fermato sullo spigolo di un reggicalze. Finisco forse anche per sfiorare qualcosa di troppo, le mani frugano in modo imbarazzante sotto la stoffa, sentono caldo, umido, lo libero, afferro un lembo e lo abbasso con un movimento rapido per tornare prontamente al mio ruolo di guardiano della porta. Devo essere ormai tutto rosso in volto.

Morgana passa il fazzoletto bianco tra le cosce rotonde verso il buio dell’inguine e l’ombra della gonna che ondeggia sulle gambe. Distolgo lo sguardo, ma subito mi reclama un altro fazzoletto; il pacchetto di clinex lo tengo ancora in mano.

– Ma ti sei messa il reggicalze per andare al mare? –
– E dunque? Lo sai come sono? Oppure non lo hai ancora capito… io non metto calze normali, non faccio cose normali e poi a te cosa importa di cosa mi metto sotto la gonna? Dai qui… – una seconda strattonata per prendermi il fazzoletto, che si strappa lasciando un piccolo quadratino sulle mia dita che rimangono immobili, ma questa volta non è scocciata, me ne accorgo perché fa un leggero sorriso sottile, come se la cosa la divertisse.
Finisce di pulirsi, poi si alza e tira su lo slip con tutte e due le mani, fa un simmetrico movimento di fianchi e bacino che fa sistemare meglio il pizzo trasparente sulle membra e le natiche precedentemente nude. In quel momento riesco ad osservare bene il reggicalze.

Poi la gonna bianca che teneva alzata, cade in un colpo secco come la caduta di sipario.
Si volta con una mossa di scatto, un volteggio ed un leggero scocco di tacco, una piroetta da tanghera che le apre lo spacco per dare visione l’ultima volta ancora alla bretella blu che serra una calza; un pugno contro lo scarico di forza seguita dalla sua esclamazione ultima:

Fatto! Ripartiamo Riccardo! Andiamo al mare.

Prima fila

Immaginarti a cavallo di un fremito per essere rubata al desiderio di un attimo.
Impossibile regalare altro tempo ai vincoli portati; cerniere, cinture, lacci ben congiunti che non frenano in ogni caso il tuo avanzare sicuro.

A quattro mani sul tavolo ti avvicini combattendo con le aderenze e poi con il pensiero ti ritrovi denudata in un attimo.

Sollevi la gonna, immobilizzandomi con occhi; non hai più riserbo alcuno, svincolata dal riguardo, briosamente sottomessa ai sensi. Un placido sorriso a labbra semiaperte, non dissuadi più lo sguardo altrove intimidito; ora mi fissi, ora mi cerchi, ora mi vuoi.

Vuoi che io ti ammiri, mentre avanzi con le mani lungo le colonne nivee a cavare il lembo della tua biancheria, per calarla gradualmente, senza fretta alcuna.

Ma ad assecondare quel tessuto ricamato, la tua gonna, crolla, come un sipario su un primo atto, senza rivelare l’epilogo smaniato…

E’ così che rivedi il finale a riprova della tua infallibile direzione artistica – ti avvicini nuovamente e in ginocchio, seduta sul mio corpo, innalzi il sipario lentamente, ancora una volta…

…ora sono spettatore in prima fila.

Lo specchio

I sogni hanno forza quando sono realizzabili.

Abbiamo sognato ad occhi aperti, riuscendo così a costruire un perfetto copione del nostro incontro clandestino.

Attraverso i sogni abbiamo conosciuto le nostre voglie, i nostri gusti. Abbiamo compreso gli stati d’animo creando così una situazione che potesse essere la più ideale.

Ho messo minuziosamente in fila tutti i miei intenti, quelli che ti ho dichiarato e quelli che ti ho volutamente lasciato nascosti, non per negarti dei desideri, ma per creare quel mistero intrigante e per vederti abbandonata alle mie volontà.

E così, l’ultimo venerdì, ti ho qui in questo luogo segreto e introvabile, nella penombra di questa stanza intima.

Ti ho fatta inginocchiare ancora, ma questa volta sulla flessibile superfice del letto.
Le gambe sono aperte e distanziate lasciando il giusto varco per posizionarmi sotto la tua parte più intima e sensibile.
Sono serrato tra le tue cosce calde.

L’umido della mia lingua si unisce all’umido della tua eccitazione.
Davanti a te ho posizionato astutamente uno specchio che ci inquadra; ti ho volutamente spinta nella sceneggiatura di questo atto – so che ti imbarazza, ma mi piace spingerti oltre.
I minuti passano tra i movimenti audaci.
Ora non tieni più tutte le emozioni che ti scorrono addosso: l’eccitazione, il piacere dei miei innesti che ti scavano tra le gambe, il tremore dei brividi sulle ginocchia, il pudore di vederti così discinta e l’eccitazione di sentirti così porca.

A tratti abbassi lo sguardo e a tratti ti guardi allo specchio, per comprendere quanto stai bene, quanto sei bella;
…e anche quanto ti voglio e quanto sei mia.

Il castigo

Non ti avevo mai vista alla guida.

C’eri tu in quel momento al posto di chi conduce, le mani strette sul volante della tua macchina nuova.

La strada aveva qualche disconnessione di carreggiata a tratti per colpa dello sterrato, altre volte causa dei dossi spuntati dalle radici. Dei grandissimi pini secolari ci accompagnavano sull’orlo del tragitto.

La campagna si apriva verso un’area incontaminata naturale e si riempiva di colori in fiore. L’orizzonte si univa alla distesa di un prato verde. Il tuo maneggio abituale distava ancora pochi chilometri; eri solita trascorrere qualche pomeriggio con il tuo cavallo.

L’abbigliamento che indossavi era tipico dell’occasione a differenza mia che ero solo un visitatore curioso delle tue passioni. La tua camicia era bianca e aderente; aveva un colletto orientale alto che tu lasciavi sbottonato fino alla quarta asola. Eri solita e abituata a fare così, dicevi che il tuo décolleté era una delle tue parti migliori e su questo fatto, più di una volta, il mio sguardo interessato e affascinato te ne aveva data piena certezza. Il cotone era di un candido ancora più bianco alla luce primaverile; aderiva ad ogni tua forma rafforzandola voluminosamente.

Sopra portavi una giacca di velluto blu sbottonata per guidare più comoda. Il pantalone colore fango attaccava perfettamente ad ogni tua piega. Aveva il rinforzo interno demarcato da delle cuciture che tratteggiavano la particolarità dello stile. In parte il pantalone veniva coperto da dei stivali di pelle alti fino al ginocchio. Quel tuo abbigliamento ti faceva molto più risoluta del solito e metteva forse troppa evidenza di rigore verso ciò che disapprovavi:

– Non dovresti scrivermi di notte soprattutto se sei stanco di giornata! –

– Beh scusami, ma stanotte avevo un’ora in più da recuperare per via del cambio d’orario legale –

– Rischi poi di addormentarti nel momento in cui dovresti essere più sveglio, a quel punto mi arrabbierei davvero – mentre mi pronunciavi queste parole imboccavi la stradina d’ingresso del ranch facendo sobbalzare l’auto da una cunetta.

– e se poi ti arrabbi che fa? – te lo dicevo con intenzione di sfida pur non comprendendo se effettivamente in quel momento fossi alterata davvero o se stessi solo scherzando con indifferenza.

Per un attimo rimanevi in silenzio. Il mio sguardo rivolgeva verso il tuo per nulla condizionato dal mio e attento nell’ultima manovra. La mia insolenza unita anche forse ad un maliziosa provocazione non trovava sosta: – quindi? Se ti arrabbi che fai? –

Improvvisamente frenavi di colpo parcheggiando l’auto. Per il terreno sconnesso le ruote presero a slittare sull’ultimo metro. Un polverone di coda si alzava dietro i nostri retrovisori.

Ora eri tu a cercare il mio sguardo allarmato dalla frenata; ti voltavi verso di me con una risposta secca e coraggiosa:

– ti metterò in castigo, chiaro? –

Lo riferivi tra il serioso e un leggero ghigno di sorriso che non lasciava intendere cosa stavi mai tramando nella mente. Lo stavi dicendo con ironia? E se fosse un rimprovero o un’intimazione? Deformazione professionale pensavo, da maestra, ma allo stesso tempo iniziai a valutare, in maniera del tutto sciocco e inappropriato, un intento malizioso della ipotetica penitenza.

– beh allora dipende tutto dal castigo – provavo a risponderle con chiara istigazione.

Dopo essere scesa la tua portiera si chiudeva bruscamente; che ti fossi innervosita sul serio? Ragionavo dentro di me rispetto a quanto poco ti conoscevo.

Io uscivo più prudentemente e cautamente mi avvicinavo a te seguendoti, mentre ti ridirigevi verso la scuderia. Il tuo passo era sostenuto, gli stivali battevano a terra con vigore.

Non cercavo di raggiungerti, ti tenevo a due metri. Un po’ perché non avevo ancora intuito lo stato d’animo della tua conversazione, un po’ perché quel pantalone da fantino ti stava magnificamente indosso e non volevo di certo perdermi il movimento dei fianchi che ondulavano poco sotto la giacca.

– mi stai guardando il culo? –

– Cosa? – rispondevo quasi incredulo perché forse era la prima volta che ti rivolgevi così a me.

– mi sembra che tu abbia bisogno di una lezione –

Poco dopo eravamo nella scuderia.
Il profumo del fieno era inebriante; il suono del respiro vivo dei cavalli interrompeva a tratti il silenzio. La fila dei box ai lati rimanevano taluni aperti e altri chiusi. Lo zoccolo dei tuoi stivali risuonava lungo il corridoio andando a sfumare rispetto al mio passo. Ti avevo per un attimo perduta nel momento che arretravo per scorgere meglio i cavalli. Alcuni erano bianchi, bruni… altri neri. Non mi ero mai interessato a questo mondo e non conoscevo affatto nulla di tutto ciò.

E’ avvenuto verso la metà del corridoio, in un istante nel quale ero affacciato ad uno scomparto vuoto, che improvvisamente avvertivo una energica frustata sui glutei. Nel momento che mi sono girato ti ho vista con il tuo frustino in mano stretto dai guanti neri.

– ma che fai? Ma sei pazza? Mi hai fatto male! –

Nel vederti così non pensavo altro che indietreggiare mentre tu all’opposto venivi avanti, sempre più, pressandomi volontariamente verso l’interno del box e chiudendoti così alle spalle l’unico varco di uscita.

– ma che fai? Ma sei impazzita? –

– te l’ho detto, mi sembra che tu abbia bisogno proprio di essere ben educato –

Nei pochi passi che mi rimanevano per addossarmi ad un angolo, agitavi la frusta davanti a me, lanciandomi qualche colpetto sulle gambe e sulle braccia, ma erano più leggere rispetto alla prima per la quale ero ancora indolenzito. In quel momento mi accorgevo che avevi anche un sottile sogghigno sulle labbra, un dettaglio che mi rassicurava su una volontà meno dolente rispetto a quanto sembravi asserire inizialmente.
Allo stesso tempo, oltre ad agitare il frustino, mi accorgevo che con una mano facevi saltare ulteriormente qualche altro bottone della tua camicetta scoprendo ancora di più la fenditura di pelle tra i due seni che si spalancava senza nulla indosso. I capezzoli rimaneva invece coperti sotto il cotone e nella penombra si poteva scorgere visibilmente la punta del loro fermento.

Arrivato in fondo alla stanza, l’ombra si faceva più fitta e lasciava alludere a quel lato d’oscurità che oltre ad essere caratteristica di quel frangente, lo era anche in corrispondenza alle nostre personalità e ai nostri intenti.

Con le spalle ormai al muro facevi l’ultimo passo verso me con il tuo corpo quasi pungendomi con i tuoi capezzoli a punta. Alzavi la frusta con l’estremità del cuoio portando la linguetta sotto il mio mento. Con quel fare ancora sinistro e risoluto avvicinavi il viso a pochi centimetri da me. Gli occhi erano affamati.

In quel momento capivo che c’era una sola volontà e in pochissimo tempo il silenzio fu rotto dal tuo ultimo invito: – sei pronto per la penitenza? –

 

 

Stamattina

Il rumore di uno scatto fotografico suona alle mie spalle. Rompe il silenzio della mattina, impressiona questa immagine di me ormai in piedi alla finestra dopo una notte di sesso.
Ti sei tolta la maschera da notte che ho voluto portassi. La mia schiena è la prima immagine di me che vedi visto che è il nostro primo incontro e ho voluto fosse così: al buio per te, ma io volevo vederci benissimo e comandare.
La notte è passata portandoci fino all’alba senza tregua, rimandando tutte le ore del sonno.
Per ore ti ho tenuta in quel letto disfatto che ora porta tutti i segni dei tuoi ripetuti amplessi.
Ora anche tu puoi guardare l’uomo che ti ha fatto questo.
Ti alzi trascinandoti il lenzuolo come una tunica, perché indosso ti ho tolto ogni cosa.
Ti avvicini a me che rimango immobile, non mi volto per non darti ancora questo vantaggio.
Tocchi con una mano la schiena che hai un attimo prima immortalato. Poi prendi il lenzuolo che hai indosso e lo avvolgi intorno a me, come un abbraccio di spalle, appoggiando la tua testa sulla mia schiena.
Ti chiedo se stai bene, con un tono di rassicurazione, il mio tono abituale, un tono diverso rispetto all’intransigenza che ho avuto durante la notte.
Sì sto bene – mi rispondi, inizi a baciarmi sul collo nell’intermezzo di un’altra conferma – sto bene – ripeti.
Le tue mani sfiorano il mio petto, si allungano in un abbraccio e carezze calme. Nei movimenti continui a trascinarti il lembo delle lenzuola che faticano a starci addosso, un lato cade liberando una tua e una mia tua spalla.
Le mani scendono e mentre lo fanno i movimenti diventano sempre più risoluti. In alcuni tratti le tue unghie graffiano delicatamente il mio sterno, il mio ventre…
Il tuo seno si schiaccia sulla mia schiena e avverto le punte della tua eccitazione.
Ti accompagni con dei baci lenti. Chiudo gli occhi vivendoti come un’onda. Le tue mani iniziano a varcare la cinta del jeans manovrando e facendo saltare il primo bottone.
Le tue mani si infilano nei pantaloni non trovando altri indumenti ostativi. I Jeans si reggono ancora precariamente sui fianchi, le tue mani sono entrate entrambe; la sinistra crea astutamente il varco l’altra afferra il membro.
Lo riconosci, è lui. Lo riconosci dopo aver preso confidenza nella notte. Lo hai preso, desiderato, avuto e sentito ovunque… ovunque…
Lo afferri come per ristabilire la tua proprietá.
É già pronto, ingrossato dai tuoi graffi e dalle tue carezze introduttive. Lo prendi con una mano e inizi a compiacermi con dei movimenti che in poco tempo lo portano a indurirsi e a ingrossarsi fino alla sua massima estensione. Le venature si evidenziano sulla pelle mentre i tuoi movimenti decisi si alternano di direzione, in avanti e in indietro.
Mi afferro a te, ai tuoi fianchi legandoti a me completamente. In quell’unione il mio e il tuo corpo sembrano un tutt’uno, sembra che il mio sesso sia diventato davvero tuo e lo dimeni con sicurezza come farebbe un uomo.
Mi sorreggo perché ne ho bisogno, le gambe mi tremano mentre tu continui a infliggere colpi, affondi e in quegli affondi la pelle di dilata come una guaina liberando la carne. La tua mano difficilmente lo contiene, ogni tanto.devi riprendere l’impugnatura. Il lenzuolo cade del tutto e anche i miei jeans ormai sono scesi alle natiche.
Nei movimenti ti spingi e ti strofini a me cercando il contatto fisico, sento che mi vuoi, ma non vuoi interromperti da questo lavoro.
La tua mano, quella sognata, quella vista mille volte in una foto, quella desiderata è ora qui con me e non si ferma. I secondi mi sembrano attimi infiniti di piacere, non si arresta e io rimango immobile conoscendo già le tue intenzioni e so bene quando solo tu deciderai di fermarti.

È successo

È il senso di appartenenza che ti porta a avvertire un sapore differente per ogni gesto;

È il sentimento che riconduce ogni passione ad un’azione nobile;

È il cuore che rilascia il nullaòsta agli impulsi, ai desideri, alle fantasie, alle smanie… senza riserve per i ripensamenti;

È l’animo che crea una dimensione per viversi, un limbo nel quale accogliere ogni possibile emozione senza rimorsi;

Tante emozioni tutte insieme e tanti pensieri che ci travolgono e a fatica riusciamo a mettere ordine i concetti e le sensazioni.

Siamo qui, con le nostre due vite, sulle quali spostando gli addendi i risultati non cambiano mai.

Due vite differenti, ma per entrambi sospese.

Eppure non lo avevamo mai pensato prima dell’istante che inaspettatamente è accaduto.

La sensazione di appartenere ad un quotidiano ci porta ad entrambi all’interno di una vita del tutto serena trascinata dalla grande futilità del senso moderno.

Abbiamo tutto quello che forse non avevamo mai necessità di desiderare in un’altra era.

Sono un uomo realizzato, un dirigente a poco più di 45 anni, ho una casa, bella, grande, ho una famiglia, sto bene con la salute, faccio una vita mondana… anche troppo mondana come tu ironizzi e sorridi con affetto…

Sei una donna realizzata, anche tu all’interno di un contesto favorevole, una bella famiglia, un lavoro appagante e a contatto con il senso umano, un uomo realizzato accanto a te, nel contesto di in un meraviglioso paradiso naturale, sei così bella…

Ci deriderebbero in molti; altri ci criticherebbero perché tutto sommato è vero che le scontentezze della vita sono ben altre che le nostre. Vite desiderate e invidiate da molti.

Allora penso che non è questione di condizione, allora penso solo che doveva succedere e basta.

Voglio pensare che non esiste una causa, un pretesto… un movente per scagionare la nostra innocenza.

È successo e non mi fermo.

Non ho bisogno di sentirmi nel giusto, non ho necessità di pensare di essere responsabile, non sono puro, non sono onesto… non mi interessa cosa sono… non sono è basta… non mi interessa….

Ora voglio solo pensare che sono con te, che sono per te…

Emotività

Io sento di fare l’amore con te anche quando parliamo del tempo che fa, quando parliamo della musica, quando parliamo di una vacanza, quando parliamo del tuo cane o quando stiamo in silenzio e non parliamo e non diciamo più nulla.

Quando il tempo suona di un respiro, suona di parole non dette e suona di parole fraintese.

Allora è proprio lì che sento di essere in te, quando ci allontaniamo e poi ci riprendiamo, quando per un istante rischiamo di perderci, ma poi prendiamo freneticamente a ricercarci.

Allora è proprio lì che avverto di averti con me, quando sento quella tua paura che sa solo di una grande emozione, poiché non esiste legame che non abbia un sottile senso di timore, timore di sbagliare, timore di perdersi, timore che tutto sia accaduto…

…timore di chiedersi come possa essere successo tutto questo…

…timore che si chiede se è giusto, se sia sbagliato… un timore che secondo me si fa troppe domande sempre.

Un timore che può essere preceduto solo dalla fiducia, quella che deve nascere, che deve accrescere attraverso il tempo e la conoscenza l’uno dell’altra.

Quando ci fideremo di noi, non ci sarà suono che ci disturberà, non esisterà più equivoco, ci sarà solo comprensione e devozione l’uno per l’altro.

E se ancora è presto per fidarci… allora affidiamoci a questo volerci bene… perché è solo – di farci del bene – che stiamo parlando.

Te lo sussurro ancora una volta: Ti voglio bene… e ti voglio….

 

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