Autogrill

E’ una primavera di vento, di un forte vento, ma la mia amica Morgana non vuole rinunciare ad una gita al mare.

Si veste come nelle sue domeniche di settembre inoltrato, un camicia sbottonata, ma con un rete di nylon sulla pelle delle gambe.
Io guardo tra il mio guardaroba, un jeans e una maglietta a V, ma chiudo il secondo cassetto, non porterò il costume…

– …ma perché no? –
– …fa troppo freddo per farsi il bagno… – le rispondo.
– Non ci sono proprio più gli uomini coraggiosi dei miei romanzi… – mi replica con provocazione e sarcasmo, intanto che fruga nel penultimo cassetto per tirar fuori un doppio pezzo azzurro e turchese. Lo rotea in area con un sorriso ed uno sguardo di sfida, e nel passo lento di avvicinamento, poco dopo che mi volto non curante, sento che qualcosa mi arriva in testa. Sì, mi ha lanciato un pezzo! Per gioco, certo, il superiore per l’appunto, e appena lo raccolgo da terra e lo apro per notare quanto è striminzito, soprattutto per le sue forme, lei si avvicina e lo strappa tra le mani con un: – …dai qua! – restituendomi furtivamente un bacio sulla guancia.
Poi rapidamente mette il costume nella borsetta, guarda l’orologio, è pronta.

Partiamo.

Prendo la guida della mia barchetta verso Sestri Levante, con l’incertezza che possa piovere da un momento all’altro. La sua mano sinistra tiene per tutto il tempo il capello giallo e con la destra abbraccia il poggiatesta del mio sedile.

Mi parla del viaggio che ha programmato per fine agosto, una crociera greca, vorrebbe che l’accompagnassi, ma non posso assentarmi dagli impegni di lavoro. – Mai che vieni una volta con me, mi lasci sempre ai marinai… – sussurra con una voce e un’espressione di un finto lamento smascherato da un sorriso accennato per confermare nell’ironia qualcosa d’intentato o di davvero accaduto in qualche sua crociera.

– Metto benzina – e inserisco la freccia per voltare a destra.
Mi rifornisco al self-service, tanto per risparmiare qualche centesimo in più che non risolverà di certo il caro benzina.

Prima di partire Morgana vuole passare ai servizi, la dovrei seguire poiché mi chiede di sorvegliarle la porta del bagno.
Faccio storie, anche perché: che vergogna c’è tra donne? E poi ci saranno certamente le serrature! Ma inutile discutere con lei quando fa così, con una certa risolutezza, che diviene qualche volta un ordine o un’azione intraprendente, come ora, che mi prende per mano come fossi un ragazzino trascinandomi verso i servizi con la sagoma dalle forme femminili.

Entro, con imbarazzo proprio nel momento in cui una donna sta per uscire da una porta in fila tra le tante, con uno sguardo intollerante.
Morgana mi chiede di reggerle la borsetta. Apre la porta ed effettivamente noto che la chiusura è rotta. Saranno rotte anche tutte le altre? Mi domando e mi prende curiosità di verificare, ma mi arresto poiché non sia mai cosa mi aspetta dietro la porta; potrei finire per essere scambiato per un maniaco e ricevere qualche insulto.

Si sentono i rumori delle vesti di Morgana, poi il suono dell’acqua che scende in disordine. Fortunati noi uomini che possiamo almeno prendere la mira ed attutire il rumore sulla ceramica, penso.
Finito il rumore sento la sua voce occorre oltre la porta che ci separa…

– Riccardo? Nella borsetta dovrebbero esserci dei fazzolettini, passamene uno… –

Apro la chiusura a cerniera e prendo a frugare oltre il costume, facendomi varco tra il lucida labbra, gli specchietti, dei bigliettini, il portafoglio, cellulare, delle sfere d’acciaio collegate da una corda, qualcosa che forse non devo tropo chiedermi cosa sia… c’è di tutto… ed ecco che finalmente trovo uno scompartimento dove è situato un pacchetto di clinex. Apro il pacchetto e sorreggendo tutto il resto nell’altra mano, dischiudo leggermente la porta cercando di far passare solo il braccio con il fazzoletto…

– …ma cosa fai!? – esclama deridendo.
– ma come cosa faccio? Non mi hai detto di passarti un fazzoletto –
– Sì, appunto, ma se non entri non ci arrivo. –

Ritiro il braccio, come fosse una proboscide acrobaticamente allungata per raggiungerla. Apro la maniglia ed entro.
– …Chiudi la porta e tienila da dentro così non entra nessuno e dai qui… – Allunga una mano e prende il fazzoletto che riesce ora a raggiungere perfettamente.

Sto per dirle che non mi sembra il caso di rimanere lì, ma so che poi mi direbbe scocciata frasi che conosco già a memoria: che faccio troppe storie, che io non sono un estraneo dopo tutti questi anni che ci conosciamo, che sono un amico speciale e che non si vergogna di me. Allora sto zitto e lei difatti si comporta non curante con disinvoltura, come se non esistessi, come se fosse tutto normale.

E’ seduta sulla tazza coperta da uno di quelle carte copri-water monouso, ma il sostegno della carta igienica ha solo un cartoncino spoglio.
Si cala ancora un po’ lo slip di pizzo che rimane sostenuto dai fianchi larghi ed impigliato tra le cosce leggermente divaricate; si alza leggermente con impazienza, sorreggendo con l’altro braccio la gonna bianca che tenta di cadere.

Dà ancora qualche strattonata allo slip con la mano che tiene il fazzoletto ma sembra sia impigliato in qualcosa…
Aiuto…– dice come un intercalare a cui non do importanza, ma poi aggiunge – Ma mi vuoi aiutare…!? – e sbuffa quasi scocciata. – Stai calma…– mi avvicino, lasciando la maniglia della porta e continuando a sorreggere fazzoletti e borsetta con l’altra mano come un acrobata.

Afferro lo slip imprigionato e portando la mano sotto il margine ultimo della gonna, mi accorgo che si è fermato sullo spigolo di un reggicalze. Finisco forse anche per sfiorare qualcosa di troppo, le mani frugano in modo imbarazzante sotto la stoffa, sentono caldo, umido, lo libero, afferro un lembo e lo abbasso con un movimento rapido per tornare prontamente al mio ruolo di guardiano della porta. Devo essere ormai tutto rosso in volto.

Morgana passa il fazzoletto bianco tra le cosce rotonde verso il buio dell’inguine e l’ombra della gonna che ondeggia sulle gambe. Distolgo lo sguardo, ma subito mi reclama un altro fazzoletto; il pacchetto di clinex lo tengo ancora in mano.

– Ma ti sei messa il reggicalze per andare al mare? –
– E dunque? Lo sai come sono? Oppure non lo hai ancora capito… io non metto calze normali, non faccio cose normali e poi a te cosa importa di cosa mi metto sotto la gonna? Dai qui… – una seconda strattonata per prendermi il fazzoletto, che si strappa lasciando un piccolo quadratino sulle mia dita che rimangono immobili, ma questa volta non è scocciata, me ne accorgo perché fa un leggero sorriso sottile, come se la cosa la divertisse.
Finisce di pulirsi, poi si alza e tira su lo slip con tutte e due le mani, fa un simmetrico movimento di fianchi e bacino che fa sistemare meglio il pizzo trasparente sulle membra e le natiche precedentemente nude. In quel momento riesco ad osservare bene il reggicalze.

Poi la gonna bianca che teneva alzata, cade in un colpo secco come la caduta di sipario.
Si volta con una mossa di scatto, un volteggio ed un leggero scocco di tacco, una piroetta da tanghera che le apre lo spacco per dare visione l’ultima volta ancora alla bretella blu che serra una calza; un pugno contro lo scarico di forza seguita dalla sua esclamazione ultima:

Fatto! Ripartiamo Riccardo! Andiamo al mare.

Rewind

Non esistono delle stagioni, il tepore metropolitano è quasi sempre lo stesso durante tutto l’anno. Una luce pallida, artificiale, evidenzia le tinte della rete di Milano: la gialla, la rossa, la verde. Le musiche sono sempre le stesse, fisarmoniche o violini, timbri che riconducono alle melodie polacche di Bregovic.

E torna come un rewind quel breve racconto, un disco in vinile che continua a suonare non annoiando mai nessun ascoltatore. Lo hanno udito, lo hanno immaginato, lo hanno invidiato… lo hanno persino copiato; e noi lo abbiamo lasciato fare, perché eravamo soltanto noi ad averlo davvero vissuto.

Lui aveva trent’anni, una macchina fotografica, un treno da perdere. Lei di anni ne aveva trentotto, il treno lo aveva già perso, ma non lo sapeva ancora.

Lui scendeva le scale della metropolitana.

Lei le saliva. Lui la vide, lei lo vide… Milano si fermò.

Lui accarezzò con lo sguardo i quindici denari di lucido nylon autoreggente che salivano al piano superiore.

Scavalcò il mancorrente.

Lei insieme alla testa e al treno perse le chiavi di casa. Non si presentò mai all’appuntamento.

I loro pensieri trovarono l’intreccio in un angolo di sotterraneo, i loro passi salirono… salirono su in superficie, fino a lasciare impronte parallele e indelebili nella neve di un parco.

Per un anno non uscirono dalla mansarda del suo Atelier, ma non ce se accorsero mai.

Faceva freddo e faceva anche molto bohémien.

Sotto ordinazioni qualcuno portava piatti da mangiare e libri da leggere. Nonostante tutto mangiavano e con molto appetito.

E tra un delicato amplesso e un fotografare d’istinto, sfiniti di piacere, si leggevano a vicenda qualcosa, a volte persino durante, a riprova che le due cose non erano poi del tutto incompatibili.

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La ragazza dei crediti

Dall’inizio di quel timido capolino attraverso la porta, sei entrata ed uscita dalla nostra stanza non ricordo più quante volte, una decina? Non le ho contate ad essere sincero ed ero anche un po’ perso o più opportunamente concentrato sui tanti ragionamenti all’ordine del giorno.

La riunione era iniziata alle 9:30; c’era ancora molto da discutere malgrado le prime due ore già trascorse. Lo startup della nuova banca ci impegnava su troppe criticità ancora da smarcare, quale sarebbe stato il target dei clienti campione? Quali i criteri per la generazione dei portafogli?

Sei entrata per utilizzare la fotocopiatrice, la più vicina al tuo ufficio, ed è stato in quel momento che la cravatta mi stringeva al collo più del normale e l’ambiente mi sembrava chiuso di un’aria troppo pesante.

Sono bastati venti metri al massimo di quel tuo passo deciso, quei movimenti perfetti, stretti in un tailleur blu, le gambe nude – alte – che laceravano l’aria con un fruscio di pelle… ed un sorriso di padronanza che mi ha lasciato disorientato.

Roberto e Mario che analizzavamo gli ultimi flussi di dati, si sono arrestati per fissarmi attendendo una risposta ad una domanda posta che non avevo udito in alcun modo.

– ma sta seguendo Di Carlo? –

no, scusate, ma oggi il condizionatore è rotto vero? –

Loro non mi hanno di certo capito, ma il tuo accenno di sorriso mentre eri di spalle a loro, ha segnato un sottile traguardo di complicità.

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Fotogrammi letterari

Fogli su fogli si ammassavano sulla scrivania di noce, una grafia nera vacillava su ogni rigo, era la mia scrittura.

Tu incuriosita e certa a priori del mio consenso, protendevi la mano sollevando una delle pagine, la piccola quantità di polvere accumulata in superficie si volatilizzava attraverso barlumi di luce.

A cosa stavi lavorando?

L’amnesia non mi permetteva di ricordare un solo avvenimento narrato all’interno di quei fogli; da quanto quelle pagine erano li? Non sapevo dare risposta ai quesiti posti, potevo solo rifiutare nel riconoscere un vero impegno letterario in quegli appunti abbandonati.

Ma non mi avevi detto che non scrivevi più? –

Non so cosa tu stia leggendo in verità…

Poi balbettavi qualche parola nella difficoltà a comprendere quella mia grafia sbarazzina. – Oltre i mar… margini non osser… osse-rva-bili – in seguito tutto d’un fiato – Oltre i margini non osservabili, c’eri tu.. e ancora tu. – Proseguivi, a brandelli di parole, congiungendo sillabe come fai solitamente con le note dei tuoi nuovi spartiti da pianoforte. Poi su l’ennesimo singhiozzo ti interrompevo recitando istintivamente il paragrafo:

Oltre i margini non osservabili, c’eri tu e ancora tu.
Tu rovesciata sul letto e stremata dal tempo; io che avevo appetito e ritagliavo una mela.
Ancora un tuo gemito, mentre addentavo; smarrivo l’attenzione nell’osservare le tue vesti, un patrimonio abbandonato a terra alla conquista delle nuove pieghe che tracciavano un sentiero di passione.

Arrivato al punto accapo ero catturato da un leggero rimorso: nel totale flashback di quel capoverso, avrei dovuto innegabilmente chiarire anche le probabili curiosità che sarebbero sopraggiunte? Per esempio: quando avevo scritto? A chi era stato dedicato? Ma il tuo riscontro sopraggiungeva più che discreto malgrado il desiderio di recuperare conoscenza del tempo che ci aveva diviso da più di un anno.

Splendido – posso leggere ancora?

Prolungavi la mano su un nuovo foglio con un leggero timore di scoperta e allo stesso tempo l’eccitazione nel recuperare qualche storia nuova.

Io intanto mi avvicinavo per aprire le imposte e permettere al mattino di entrare. Attorno al casale l’erba selvatica era cresciuta alta, ricopriva metà delle ruote posteriori del vecchio trattore di mio padre; la ruggine non aveva ancora mangiato la scritta Massey Ferguson.

Le tue figlie giravano l’angolo, potevo osservarle dall’alto mentre giocavano, ridevano inseguendosi l’una con l’altra. La più grande che riusciva facilmente a staccare la più piccola che, con grande fatica, correva sull’erba alta con lo sforzo simile a chi corre sull’acqua. Le loro risa salivano fin su al secondo piano, risuonando nella nostra stanza in penombra

Il disordine delle cose, la trascuratezza di quel luogo riportava la stessa sconsideratezza dei paragrafi che attentamente leggevi. L’erba alta e i fiori di campo crescevano in maniera del tutto naturale, le mie parole similmente, erano nate senza che ne potessi ricordare l’ordine cronologico.

Faticavo a riconoscermi protagonista in tutto ciò che mi era accaduto nell’ultimo anno. Il tuo distacco aveva originato un’assenza anche dentro la mia vita, come se una parentesi temporale fosse evaporata dopo il tuo rientro, ne rimaneva qualche istante trascritto… che si poteva ancora scorgere attraverso quelle pagine.

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Distesa

Tutto era partito dai tuoi occhi, dal taglio dei tuoi occhi.
Due occhi chiari, le ciglia curate, uno sguardo quasi perso nell’infinito della vita, occhi dell’est.

Mi ero perduto nel tuo sguardo che mirava il vuoto e non fissava me.
Ma ero partito da li, dai tuoi occhi per concedermi di poter entrare lungo il tuo campo visivo. Un passaggio obbligato forse per entrare nella tua vita. Non avrei mai pensato che quegli occhi mi avrebbero portato a disegnare, ulteriormente, i lineamenti del tuo corpo. Ora, qui, nudo… disteso sul letto di una camera in penombra; il tuo corpo abbandonato per me, con me.

Sei ora tu nel mio campo visivo a assecondare ogni giorno il piacere che ho nel guardarti. Catturata, trascinata dallo stesso piacere capovolto: il lasciarti guardare da me.
Strano per un fotografo, che dovrebbe mantenere sempre quel pizzico di professionalità e distacco. Ma l’eccitazione è un po’ come la fotografia, devi trovare sempre la giusta distanza, la corretta messa a fuoco, perfezionare l’esposizione, quella sottile sfumatura propria della profondità di campo.

E’ così che mi sento ora, alla giusta distanza dal tuo corpo che indossa gli ultimi indumenti della giornata: il reggiseno di pizzo, la giarrettiera che si abbandona come una corda con la quale poter afferrare ogni singola emozione.

I tuoi slip sono a terra e tracciano l’ultimo sentiero percorso, quello che delinea ogni passo di una inibizione lasciata cadere. Le scarpe invece, astutamente, le indossi ancora; una scelta forse studiata e non lasciata di certo al caso.

Sei timida, è vero, ma adesso sento che hai voglia solo di libertà estrema, solo voglia di lasciarti andare, di eccedere, di sentirti solamente mia, infinitamente mia.

E ora lo sei.

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Il commesso inaspettato

Ogni gesto era in equilibrio sulle scarpe che non sfilava mai per nessun motivo, forse per non far toccare il piede a terra o forse perché le faceva piacere provare gli indumenti indosso senza privarsi di quell’artifizio così femminile.

Ero uscito dall’ufficio poco prima delle dodici anticipando di gran lunga il pranzo. Avevo imboccato una via secondaria per evitare la tanta gente che popolava il sabato di Milano.

La temperatura autunnale di novembre era tiepida eppure mi ero allentato la cravatta per un fastidioso caldo provocato forse dal passo più svelto.

E’ stato ad un incrocio che l’ho vista passare.

Aveva un cappottino giallo che lasciava intravedere un tailleur forse di colore verde scuro. Camminava con un passo intervallato, su un decolté con un tacco che batteva il suono sull’asfalto. I movimenti erano alternati da brevi pause o altre più prolungate che la catturavano oltre le vetrine dei negozi. Aveva i fianchi generosi, delle forme classiche, un cappello che le stava bene, non era di certo una signora di una magra monotonia.

Non so da quanto una donna non mi avesse rubato così lo sguardo. E’ stato in quel momento che ho deciso di seguirla; i passi che l’allontanavano mi trascinavano a lei come con una forza misteriosa e attrattiva. Non sono state tante le donne che avevo deciso di rincorrere con discrezione, lei era una di queste.

Per non dare sospetti, mi fermavo anche io di tanto in tanto a guardare oltre una qualsiasi vetrina, ma nella maggior parte dei casi il negozio non faceva per me: borse da donna, accessori, articoli per fumatori, rischiavo con molta probabilità di lasciare molti più dubbi di quanti ne volessi coprire. Mi veniva da sorridere trattenendo un leggero imbarazzo.

Lei non si curava molto di ciò che la circondava attorno, sembrava l’unico tono di colore in una fotografia di Milano in bianco e nero. Avevo deciso di saltare il pranzo per dare ancora più tempo a quel frangente, ma mai avrei potuto immaginare cosa mi sarebbe capitato a breve nei minuti a seguire.

E’ stato un istante dopo che entrò in quel negozio.

Mentre camminavo sul marciapiede sullo stesso lato non riuscivo a scorgere l’insegna e quali articoli merceologici si vendeva. Comprendevo solo all’ingresso che si trattava di una boutique di intimo, di un genere molto raffinato. Manichini slanciati nelle vetrine indossavano tessuti succinti di uno stile retrò. All’interno si potevano scorgere diversi indumenti figurati da prosperose pin-up.

Una barriera a lama d’aria mi spettinava fastidiosamente mentre ero fermo all’ingresso.

Dovevo decidermi se andare via o entrare. Mi decisi a seguito della sciocca preoccupazione che avvertivo quando mi accorsi di averla perduta tra gli scaffali. Entrai con un certo imbarazzo, ma giustificavo il mio ingresso dal fatto che potevo essere lì anche solo per fare un regalo, che male c’era? Certo ero l’unico possibile acquirente uomo in quel momento.

Camminavo fingendomi incuriosito dagli articoli (molti di questi davvero catturavano la mia attenzione) in realtà tentavo di individuarla tra quelle persone che intravedevo precariamente dietro a qualche espositore.

– Mi scusi un’informazione –

Quando mi sono sentito chiamare di spalle, non avrei mai pensato che girandomi mi sarei trovato proprio lei davanti a me. In mano teneva un capo che facevo fatica a distinguerne la tipologia. Ad un passo da me era ancora più affascinante. Non so a che battiti il cuore ormai pompava, ma era bella quell’emozione così improvvisa e inaspettata per un uomo sempre imperturbabile e austero come ero.
Nella trepidazione e nel leggero impaccio sono riuscito a risponderle: – mi dica, come posso aiutarla? –  

– Stavo cercando modelli simili a otto giarrettiere, ne avete? –  

Capivo solo in quel momento dell’equivoco che si stava venendo a creare. Forse era la giacca e la cravatta che consentivano di confondermi per il commesso del negozio. C’era poco tempo per decidere come replicare, ma non ero più capace di ritrarmi da quell’utilità del ruolo che mi era stato conferito dalla casualità.

Avrei dovuto comunque essere all’altezza di rispondere alla domanda comprendendo quanto potessi essere ignorante sull’argomento, diversamente lei ne era piuttosto competente. Dovevo farmi trovare pronto quindi esclamai un ‘no’ secco che le fece cambiare espressione del viso assumendo un profilo di delusione molto evidente. Il suo sguardo era poco chino sull’indumento che teneva in mano, pensieroso su cosa fare.

– Che stupido – mi dicevo tra me e me, e sentivo di voler in qualche modo rimediare con una rassicurazione: – Mi dia comunque il tempo per verificare a catalogo –
Lo dicevo con un leggero sorriso che contagiò anche il suo. Gli occhi ripresero ad illuminarsi e compresi che era soddisfatta della risposta e della speranza riposta.

– Entro in camerino a provare qualcosa nel frattempo –

Il camerino era proprio lì a pochi passi. La vidi aprire la tenda, appoggiare la cruccia sul gancetto, sfilarsi di dosso il cappottino giallo che finalmente lasciava intravedere il tailleur che indossava.

Dovevo allontanarmi per fare finta di verificare quanto mi aveva chiesto. Avevo anche pensato di inoltrare la richiesta alla commessa vicino la cassa, ma ero dubbioso su quanto stessi domandando e soprattutto avevo il timore che potesse chiedermi altri dettagli che assolutamente non conoscevo. Feci quindi solo un giro attorno agli espositori mirando di tanto in tanto verso il camerino chiuso dalla tenda.

Da lontano si poteva scorgere bene il movimento delle gambe slanciate sulle scarpe alte, i movimenti che alzavano una gamba e poi l’altra per scavalcare la gonna caduta a terra. Ogni gesto era in equilibrio sulle scarpe che non sfilava mai per nessun motivo, forse per non far toccare il piede a terra o forse perché le faceva piacere provare gli indumenti indosso senza privarsi di quell’artifizio così femminile.

Da un altro indumento a terra avevo compreso che stava indossando delle sottovesti di pizzo nero. Provai ad avvicinarmi, un poco rassicurato dal mio nuovo ruolo, ma in realtà ero catturato da quella leggera fessura che si era creata tra la tenda e la parete del camerino.

Mi sentivo molto voyeur, sapevo che non era una cosa moralmente corretta, ma per ogni passo indietro che facevo, tre mi portavano poi più avanti. Alla fine raggiunsi un punto ideale per i miei occhi.

Lo spacco della tenda da muro, ancora più aperto da un suo involontario movimento, permetteva di vederla bene in déshabillé. Indossava delle calze fermate da un reggicalze che non doveva aver scelto in negozio. Intuivo che era una habitué di quel genere di abbigliamento erotico. Mentre una bretella saltava liberando la calza, delicatamente alzava la gamba fermandola sull’orlo dello sgabello per ricomporre il delicato nylon nella sua abituale posizione; infilava le unghie rosse in modo delicato all’interno del tessuto, per afferrarne il ricamo e delicatamente riportarlo al livello dell’inguine dove lo imprigionava con una abile pressione al fermo. Le giarrettiere segnavano delicatamente la pelle chiara sui rosei glutei. Indossava quell’abbigliamento come fosse un’armatura, come a prepararsi ad una battaglia passionale.

Per un attimo mi sembrò che nel riflesso dello specchio si accorse della mia presenza, ero indubbio se mi fossi confuso o se veramente si fosse accorta che la stessi spiando.

Il dubbio era ancor più enfatizzato dalla sua noncuranza; non la notavo affatto sorpresa.

Quella stessa noncuranza poteva anche essere legata a quanto poteva essere naturale mostrarsi così davanti ad un commesso? Oppure iniziai a pensare che avesse intuito che non ero quello che sembravo. Allora potevamo essere complici ad un gioco del vedo non vedo? Un gioco di intenti, di sguardi, abilmente creato dal caso e enfatizzato dalle nostre volontà.

Pensavo che le piaceva avere i miei occhi addosso, che le correvano lungo le forme generose, che si soffermavano attenti tra i dettagli e sulle movenze che rappresentava per me.
Troppi pensieri e troppi dubbi.

L’unica certezza, l’unica realtà era quella che potevo osservare.

 

Imprinting

Sono cresciuto all’interno di un negozio di parrucchiere per signora, viale delle Formaci, Roma. Ricordo le donne in camice rosa, gli odori delle lacche, il rumore del fono e i colori dei bigodini con cui giocavo.

Ricordo quando tiravo loro il grembiule, le voci che chiamavano per il mio nome, al diminutivo… e le clienti che mi sollevavano di peso per sorridermi con quei visi incipriati e manicure appena fatte – stili di inizi anni settanta.
Il mondo femminile mi ha sempre affascinato, trattiene in se tutti i particolari che visivamente mi compiace accogliere.
E’ un mondo accattivante e ne vale sempre il desiderio di esplorarlo – che male c’è?
Lo faccio comunque con distacco, con una separazione emotiva che non sempre viene compresa ed accettata; le pulsioni attrattive di questo universo sull’uomo si fanno pungenti, colgono e mettono in tensione sempre il nervo più libidinoso, diversamente il pieno controllo di un distacco, mi permette di anatomizzare questo universo, cogliendone sfumature, suoni e anche piaceri.

Da adolescente, mia madre trasferì il suo negozio da parrucchiera sotto la nostra abitazione; le sue clienti attraversavano un cortile per recarsi dall’ingresso, pochi passi dal giardino al negozio.

Le conoscevo quasi tutte, erano più di quattrocento, ma nella quantità a me piacevano in particolare quattro.

Entravo di nascosto in negozio verso l’ora di mezzodì, tutti erano in pausa. Consultavo l’agenda degli appuntamenti settimanali per annotare alla mente in quale giorno e a quale ora fossero passate. La signora Saveria, Rita Vespa, Anna e quella che chiamavano ‘la Professoressa, era anche il sopranome riportato settimanalmente in agenda.
In cantina, lungo l’intercapedine umida, una piccola finestra dava sul terreno del cortile e da quel nascondiglio, per il breve tratto di strada, potevo osservare le gambe di queste clienti transitare verso l’ingresso del negozio. Era un percorso breve, cinque forse sei passi prima che una di loro salisse i tre gradini.

Proprio in quell’ultimo istante la posizione poteva essere ancora più ottimale, ma la frazione di secondo era minima. Solo alcune volte sono riuscito a scorgere l’accenno di un ricamo sull’orlo della Professoressa.

Non ricordo quando ho smesso questo rito, forse quando ho iniziato ad avere maggiori possibilità di osservazioni dirette sulle donne.
Ma il ricordo di quel diversivo mi riempie di simpatia, leggerezza e di nostalgia.

Prima fila

Immaginarti a cavallo di un fremito per essere rubata al desiderio di un attimo.
Impossibile regalare altro tempo ai vincoli portati; cerniere, cinture, lacci ben congiunti che non frenano in ogni caso il tuo avanzare sicuro.

A quattro mani sul tavolo ti avvicini combattendo con le aderenze e poi con il pensiero ti ritrovi denudata in un attimo.

Sollevi la gonna, immobilizzandomi con occhi; non hai più riserbo alcuno, svincolata dal riguardo, briosamente sottomessa ai sensi. Un placido sorriso a labbra semiaperte, non dissuadi più lo sguardo altrove intimidito; ora mi fissi, ora mi cerchi, ora mi vuoi.

Vuoi che io ti ammiri, mentre avanzi con le mani lungo le colonne nivee a cavare il lembo della tua biancheria, per calarla gradualmente, senza fretta alcuna.

Ma ad assecondare quel tessuto ricamato, la tua gonna, crolla, come un sipario su un primo atto, senza rivelare l’epilogo smaniato…

E’ così che rivedi il finale a riprova della tua infallibile direzione artistica – ti avvicini nuovamente e in ginocchio, seduta sul mio corpo, innalzi il sipario lentamente, ancora una volta…

…ora sono spettatore in prima fila.

Open at your own risk

Per l’occasione avevo comprato un pensiero per te. Era un capo di intimo.

Avevamo ironizzato più volte su questo possibile regalo e azzardavamo con allegria a questa possibile trasgressione.
Una fantasia realizzabile, lecita, la più raggiungibile tra le tante altre fantasticate su di te che riservavano a differenza momenti di estrema audacia.

Il gesto era dolce e intimo, racchiudeva in sé tanti significati, e così profondi.

In particolare mi veniva da pensare a due concetti: La confidenza che avevamo raggiunto era davvero esclusiva, irripetibile. E il secondo pensiero, a quanto fosse importante il mio farti sentire sempre innegabilmente desiderata.

Stavo per consegnarti le vesti del mio piccolo sogno.

Nello poco spazio avanti a noi, nei pochi metri di parcheggio, attraverso il varco delle portiere che ci occultavano da occhi estranei, mi affrettavo a consegnarti la busta con il mio pacchetto. Un po’ per la voglia di vedere il tuo viso sbalordito e compiaciuto, un po’ per la sciocca paura del dimenticare tutto in auto; pensavo alle possibili conseguenze se il regalo fosse finito per distrazione in mano sbagliate. Le solite paure.

Rimanevi meravigliata ed emozionata nel ricevere questo pensiero.

Saliti all’interno dell’auto, scartavi il tuo regalo con dedizione, con le mani che tremavano come sempre in tutte quelle volte che ci incontravamo.

E tremavano anche gli occhi… le palpebre dall’emozione si socchiudevano con un tremolio che non trattenevi e che diventava ogni volta peculiarità del tuo viso. Mi piaceva quando facevi così, perché si leggeva quello sforzo che tratteneva il batticuore, e anche se volutamente avessi voluto nascondermelo, era un tentativo poco riuscito; io preferivo che non lo vincessi ogni volta quel turbamento.

Quando gli occhi li riaprivi, mi guardavi – erano sempre chiari e lucidi.

La scatola che racchiudeva il completino, portava una scritta ironica in inglese: – apri a tuo rischio. – Sorridevi nel leggerla, ma di rischi ne potevamo commettere ben altri da quel momento….

Non abbiamo più nulla da rischiare ora.

Davvero più nulla… nessun rischio, nessun tremolio del ciglio, nessuna più emozione.

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Le scale

Quando ci si appassiona di un desiderio inavvicinabile, le proprie certezze decadono ritrovandosi in una situazione d’indefinito… d’incerto. E così malgrado sia una persona sicura di me, ultimamente, barcollo tra un’apprensione non definita, di cui non ho conoscenza neppure della fine ultima.

Le scale che portano in mansarda sono di noce, i gradini ripidi ed il passaggio è largo solo poco più di settanta centimetri.
Mi precedi con un tacco che fa suonare il legno del primo gradino; al quinto le pieghe plissettate della gonna s’incurvano lasciando margine di veduta all’avvallamento superiore delle tue gambe. Io sono ancora al primo, con i ricami che mi arrivano quasi alla gola.

Non intendo se perdo l’equilibrio per questo, ma inciampo in un gradino di turbamento, la pianta in cuoio della scarpa batte un colpo di caduta, ti allarma in uno scatto tempestivo per esclamare – attenzione! –

Nella stessa istantanea fisso l’attenzione di quel tuo movimento
fulmineo, che trasforma in un’elica il lembo di stoffa plissettata, prendendo il volo in alta quota e svestendo ancora una volta gli estremi della tentazione.

Rimango in ginocchio, non so se ferito fisicamente od emotivamente, ma riconosco tutta la fragilità di questo disequilibrio e di tutte le volte che ho perduto sostegno in una qualsiasi tua manifestazione involontaria, seduttiva.

Rimango in ginocchio, sorreggendomi con una mano sul corrimano e accorgendomi che l’altra mano si è sorretta involontariamente alla tua caviglia, smagliando un poco la tua calza scura.

Una stretta troppo forte di concitazione.

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