Autogrill

E’ una primavera di vento, di un forte vento, ma la mia amica Morgana non vuole rinunciare ad una gita al mare.

Si veste come nelle sue domeniche di settembre inoltrato, un camicia sbottonata, ma con un rete di nylon sulla pelle delle gambe.
Io guardo tra il mio guardaroba, un jeans e una maglietta a V, ma chiudo il secondo cassetto, non porterò il costume…

– …ma perché no? –
– …fa troppo freddo per farsi il bagno… – le rispondo.
– Non ci sono proprio più gli uomini coraggiosi dei miei romanzi… – mi replica con provocazione e sarcasmo, intanto che fruga nel penultimo cassetto per tirar fuori un doppio pezzo azzurro e turchese. Lo rotea in area con un sorriso ed uno sguardo di sfida, e nel passo lento di avvicinamento, poco dopo che mi volto non curante, sento che qualcosa mi arriva in testa. Sì, mi ha lanciato un pezzo! Per gioco, certo, il superiore per l’appunto, e appena lo raccolgo da terra e lo apro per notare quanto è striminzito, soprattutto per le sue forme, lei si avvicina e lo strappa tra le mani con un: – …dai qua! – restituendomi furtivamente un bacio sulla guancia.
Poi rapidamente mette il costume nella borsetta, guarda l’orologio, è pronta.

Partiamo.

Prendo la guida della mia barchetta verso Sestri Levante, con l’incertezza che possa piovere da un momento all’altro. La sua mano sinistra tiene per tutto il tempo il capello giallo e con la destra abbraccia il poggiatesta del mio sedile.

Mi parla del viaggio che ha programmato per fine agosto, una crociera greca, vorrebbe che l’accompagnassi, ma non posso assentarmi dagli impegni di lavoro. – Mai che vieni una volta con me, mi lasci sempre ai marinai… – sussurra con una voce e un’espressione di un finto lamento smascherato da un sorriso accennato per confermare nell’ironia qualcosa d’intentato o di davvero accaduto in qualche sua crociera.

– Metto benzina – e inserisco la freccia per voltare a destra.
Mi rifornisco al self-service, tanto per risparmiare qualche centesimo in più che non risolverà di certo il caro benzina.

Prima di partire Morgana vuole passare ai servizi, la dovrei seguire poiché mi chiede di sorvegliarle la porta del bagno.
Faccio storie, anche perché: che vergogna c’è tra donne? E poi ci saranno certamente le serrature! Ma inutile discutere con lei quando fa così, con una certa risolutezza, che diviene qualche volta un ordine o un’azione intraprendente, come ora, che mi prende per mano come fossi un ragazzino trascinandomi verso i servizi con la sagoma dalle forme femminili.

Entro, con imbarazzo proprio nel momento in cui una donna sta per uscire da una porta in fila tra le tante, con uno sguardo intollerante.
Morgana mi chiede di reggerle la borsetta. Apre la porta ed effettivamente noto che la chiusura è rotta. Saranno rotte anche tutte le altre? Mi domando e mi prende curiosità di verificare, ma mi arresto poiché non sia mai cosa mi aspetta dietro la porta; potrei finire per essere scambiato per un maniaco e ricevere qualche insulto.

Si sentono i rumori delle vesti di Morgana, poi il suono dell’acqua che scende in disordine. Fortunati noi uomini che possiamo almeno prendere la mira ed attutire il rumore sulla ceramica, penso.
Finito il rumore sento la sua voce occorre oltre la porta che ci separa…

– Riccardo? Nella borsetta dovrebbero esserci dei fazzolettini, passamene uno… –

Apro la chiusura a cerniera e prendo a frugare oltre il costume, facendomi varco tra il lucida labbra, gli specchietti, dei bigliettini, il portafoglio, cellulare, delle sfere d’acciaio collegate da una corda, qualcosa che forse non devo tropo chiedermi cosa sia… c’è di tutto… ed ecco che finalmente trovo uno scompartimento dove è situato un pacchetto di clinex. Apro il pacchetto e sorreggendo tutto il resto nell’altra mano, dischiudo leggermente la porta cercando di far passare solo il braccio con il fazzoletto…

– …ma cosa fai!? – esclama deridendo.
– ma come cosa faccio? Non mi hai detto di passarti un fazzoletto –
– Sì, appunto, ma se non entri non ci arrivo. –

Ritiro il braccio, come fosse una proboscide acrobaticamente allungata per raggiungerla. Apro la maniglia ed entro.
– …Chiudi la porta e tienila da dentro così non entra nessuno e dai qui… – Allunga una mano e prende il fazzoletto che riesce ora a raggiungere perfettamente.

Sto per dirle che non mi sembra il caso di rimanere lì, ma so che poi mi direbbe scocciata frasi che conosco già a memoria: che faccio troppe storie, che io non sono un estraneo dopo tutti questi anni che ci conosciamo, che sono un amico speciale e che non si vergogna di me. Allora sto zitto e lei difatti si comporta non curante con disinvoltura, come se non esistessi, come se fosse tutto normale.

E’ seduta sulla tazza coperta da uno di quelle carte copri-water monouso, ma il sostegno della carta igienica ha solo un cartoncino spoglio.
Si cala ancora un po’ lo slip di pizzo che rimane sostenuto dai fianchi larghi ed impigliato tra le cosce leggermente divaricate; si alza leggermente con impazienza, sorreggendo con l’altro braccio la gonna bianca che tenta di cadere.

Dà ancora qualche strattonata allo slip con la mano che tiene il fazzoletto ma sembra sia impigliato in qualcosa…
Aiuto…– dice come un intercalare a cui non do importanza, ma poi aggiunge – Ma mi vuoi aiutare…!? – e sbuffa quasi scocciata. – Stai calma…– mi avvicino, lasciando la maniglia della porta e continuando a sorreggere fazzoletti e borsetta con l’altra mano come un acrobata.

Afferro lo slip imprigionato e portando la mano sotto il margine ultimo della gonna, mi accorgo che si è fermato sullo spigolo di un reggicalze. Finisco forse anche per sfiorare qualcosa di troppo, le mani frugano in modo imbarazzante sotto la stoffa, sentono caldo, umido, lo libero, afferro un lembo e lo abbasso con un movimento rapido per tornare prontamente al mio ruolo di guardiano della porta. Devo essere ormai tutto rosso in volto.

Morgana passa il fazzoletto bianco tra le cosce rotonde verso il buio dell’inguine e l’ombra della gonna che ondeggia sulle gambe. Distolgo lo sguardo, ma subito mi reclama un altro fazzoletto; il pacchetto di clinex lo tengo ancora in mano.

– Ma ti sei messa il reggicalze per andare al mare? –
– E dunque? Lo sai come sono? Oppure non lo hai ancora capito… io non metto calze normali, non faccio cose normali e poi a te cosa importa di cosa mi metto sotto la gonna? Dai qui… – una seconda strattonata per prendermi il fazzoletto, che si strappa lasciando un piccolo quadratino sulle mia dita che rimangono immobili, ma questa volta non è scocciata, me ne accorgo perché fa un leggero sorriso sottile, come se la cosa la divertisse.
Finisce di pulirsi, poi si alza e tira su lo slip con tutte e due le mani, fa un simmetrico movimento di fianchi e bacino che fa sistemare meglio il pizzo trasparente sulle membra e le natiche precedentemente nude. In quel momento riesco ad osservare bene il reggicalze.

Poi la gonna bianca che teneva alzata, cade in un colpo secco come la caduta di sipario.
Si volta con una mossa di scatto, un volteggio ed un leggero scocco di tacco, una piroetta da tanghera che le apre lo spacco per dare visione l’ultima volta ancora alla bretella blu che serra una calza; un pugno contro lo scarico di forza seguita dalla sua esclamazione ultima:

Fatto! Ripartiamo Riccardo! Andiamo al mare.

Fotogrammi letterari

Fogli su fogli si ammassavano sulla scrivania di noce, una grafia nera vacillava su ogni rigo, era la mia scrittura.

Tu incuriosita e certa a priori del mio consenso, protendevi la mano sollevando una delle pagine, la piccola quantità di polvere accumulata in superficie si volatilizzava attraverso barlumi di luce.

A cosa stavi lavorando?

L’amnesia non mi permetteva di ricordare un solo avvenimento narrato all’interno di quei fogli; da quanto quelle pagine erano li? Non sapevo dare risposta ai quesiti posti, potevo solo rifiutare nel riconoscere un vero impegno letterario in quegli appunti abbandonati.

Ma non mi avevi detto che non scrivevi più? –

Non so cosa tu stia leggendo in verità…

Poi balbettavi qualche parola nella difficoltà a comprendere quella mia grafia sbarazzina. – Oltre i mar… margini non osser… osse-rva-bili – in seguito tutto d’un fiato – Oltre i margini non osservabili, c’eri tu.. e ancora tu. – Proseguivi, a brandelli di parole, congiungendo sillabe come fai solitamente con le note dei tuoi nuovi spartiti da pianoforte. Poi su l’ennesimo singhiozzo ti interrompevo recitando istintivamente il paragrafo:

Oltre i margini non osservabili, c’eri tu e ancora tu.
Tu rovesciata sul letto e stremata dal tempo; io che avevo appetito e ritagliavo una mela.
Ancora un tuo gemito, mentre addentavo; smarrivo l’attenzione nell’osservare le tue vesti, un patrimonio abbandonato a terra alla conquista delle nuove pieghe che tracciavano un sentiero di passione.

Arrivato al punto accapo ero catturato da un leggero rimorso: nel totale flashback di quel capoverso, avrei dovuto innegabilmente chiarire anche le probabili curiosità che sarebbero sopraggiunte? Per esempio: quando avevo scritto? A chi era stato dedicato? Ma il tuo riscontro sopraggiungeva più che discreto malgrado il desiderio di recuperare conoscenza del tempo che ci aveva diviso da più di un anno.

Splendido – posso leggere ancora?

Prolungavi la mano su un nuovo foglio con un leggero timore di scoperta e allo stesso tempo l’eccitazione nel recuperare qualche storia nuova.

Io intanto mi avvicinavo per aprire le imposte e permettere al mattino di entrare. Attorno al casale l’erba selvatica era cresciuta alta, ricopriva metà delle ruote posteriori del vecchio trattore di mio padre; la ruggine non aveva ancora mangiato la scritta Massey Ferguson.

Le tue figlie giravano l’angolo, potevo osservarle dall’alto mentre giocavano, ridevano inseguendosi l’una con l’altra. La più grande che riusciva facilmente a staccare la più piccola che, con grande fatica, correva sull’erba alta con lo sforzo simile a chi corre sull’acqua. Le loro risa salivano fin su al secondo piano, risuonando nella nostra stanza in penombra

Il disordine delle cose, la trascuratezza di quel luogo riportava la stessa sconsideratezza dei paragrafi che attentamente leggevi. L’erba alta e i fiori di campo crescevano in maniera del tutto naturale, le mie parole similmente, erano nate senza che ne potessi ricordare l’ordine cronologico.

Faticavo a riconoscermi protagonista in tutto ciò che mi era accaduto nell’ultimo anno. Il tuo distacco aveva originato un’assenza anche dentro la mia vita, come se una parentesi temporale fosse evaporata dopo il tuo rientro, ne rimaneva qualche istante trascritto… che si poteva ancora scorgere attraverso quelle pagine.

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Scambi di sguardi

Il disegno di Laliberte poteva essere presagio su una scena futura, ma io non potevo immaginarlo…
Ora che da giorni ormai sono partito, lontano dai binari di Milano, allora ripenso su quanto accaduto.

Ripenso a quell’ultima scena veduta: il buio dell’ora solare, le lancette che segnano le nove e la pioggia battente.
Il mio indugio al riparo del porticato della stazione ed il vederla in attesa della ripartenza del treno appena fermatosi al nostro comune arrivo. Il suo allontanamento nello svincolo di un sovrappasso prudente, oltre i binari, verso il vecchio passaggio dismesso che porta in via Antonio Gramsci.
L’ombrello spiegato ed i suoi passi incerti tra una pozza d’acqua ed uno snodo di metallo.

Avrei voluto seguirla, avrei dovuto seguirla?

Il desiderio di riuscire a trovare un punto, un percorso comune, uno spunto di recapito per una lettera.
Un foglio di carta scritto, un pensiero tra un viaggio, tra un ritardo, tra uno scambio di rotaie ed una coincidenza… una coincidenza di incroci tra treni…
…e sguardi… tra noi.

Imprinting

Sono cresciuto all’interno di un negozio di parrucchiere per signora, viale delle Formaci, Roma. Ricordo le donne in camice rosa, gli odori delle lacche, il rumore del fono e i colori dei bigodini con cui giocavo.

Ricordo quando tiravo loro il grembiule, le voci che chiamavano per il mio nome, al diminutivo… e le clienti che mi sollevavano di peso per sorridermi con quei visi incipriati e manicure appena fatte – stili di inizi anni settanta.
Il mondo femminile mi ha sempre affascinato, trattiene in se tutti i particolari che visivamente mi compiace accogliere.
E’ un mondo accattivante e ne vale sempre il desiderio di esplorarlo – che male c’è?
Lo faccio comunque con distacco, con una separazione emotiva che non sempre viene compresa ed accettata; le pulsioni attrattive di questo universo sull’uomo si fanno pungenti, colgono e mettono in tensione sempre il nervo più libidinoso, diversamente il pieno controllo di un distacco, mi permette di anatomizzare questo universo, cogliendone sfumature, suoni e anche piaceri.

Da adolescente, mia madre trasferì il suo negozio da parrucchiera sotto la nostra abitazione; le sue clienti attraversavano un cortile per recarsi dall’ingresso, pochi passi dal giardino al negozio.

Le conoscevo quasi tutte, erano più di quattrocento, ma nella quantità a me piacevano in particolare quattro.

Entravo di nascosto in negozio verso l’ora di mezzodì, tutti erano in pausa. Consultavo l’agenda degli appuntamenti settimanali per annotare alla mente in quale giorno e a quale ora fossero passate. La signora Saveria, Rita Vespa, Anna e quella che chiamavano ‘la Professoressa, era anche il sopranome riportato settimanalmente in agenda.
In cantina, lungo l’intercapedine umida, una piccola finestra dava sul terreno del cortile e da quel nascondiglio, per il breve tratto di strada, potevo osservare le gambe di queste clienti transitare verso l’ingresso del negozio. Era un percorso breve, cinque forse sei passi prima che una di loro salisse i tre gradini.

Proprio in quell’ultimo istante la posizione poteva essere ancora più ottimale, ma la frazione di secondo era minima. Solo alcune volte sono riuscito a scorgere l’accenno di un ricamo sull’orlo della Professoressa.

Non ricordo quando ho smesso questo rito, forse quando ho iniziato ad avere maggiori possibilità di osservazioni dirette sulle donne.
Ma il ricordo di quel diversivo mi riempie di simpatia, leggerezza e di nostalgia.

Prima fila

Immaginarti a cavallo di un fremito per essere rubata al desiderio di un attimo.
Impossibile regalare altro tempo ai vincoli portati; cerniere, cinture, lacci ben congiunti che non frenano in ogni caso il tuo avanzare sicuro.

A quattro mani sul tavolo ti avvicini combattendo con le aderenze e poi con il pensiero ti ritrovi denudata in un attimo.

Sollevi la gonna, immobilizzandomi con occhi; non hai più riserbo alcuno, svincolata dal riguardo, briosamente sottomessa ai sensi. Un placido sorriso a labbra semiaperte, non dissuadi più lo sguardo altrove intimidito; ora mi fissi, ora mi cerchi, ora mi vuoi.

Vuoi che io ti ammiri, mentre avanzi con le mani lungo le colonne nivee a cavare il lembo della tua biancheria, per calarla gradualmente, senza fretta alcuna.

Ma ad assecondare quel tessuto ricamato, la tua gonna, crolla, come un sipario su un primo atto, senza rivelare l’epilogo smaniato…

E’ così che rivedi il finale a riprova della tua infallibile direzione artistica – ti avvicini nuovamente e in ginocchio, seduta sul mio corpo, innalzi il sipario lentamente, ancora una volta…

…ora sono spettatore in prima fila.

Le scale

Quando ci si appassiona di un desiderio inavvicinabile, le proprie certezze decadono ritrovandosi in una situazione d’indefinito… d’incerto. E così malgrado sia una persona sicura di me, ultimamente, barcollo tra un’apprensione non definita, di cui non ho conoscenza neppure della fine ultima.

Le scale che portano in mansarda sono di noce, i gradini ripidi ed il passaggio è largo solo poco più di settanta centimetri.
Mi precedi con un tacco che fa suonare il legno del primo gradino; al quinto le pieghe plissettate della gonna s’incurvano lasciando margine di veduta all’avvallamento superiore delle tue gambe. Io sono ancora al primo, con i ricami che mi arrivano quasi alla gola.

Non intendo se perdo l’equilibrio per questo, ma inciampo in un gradino di turbamento, la pianta in cuoio della scarpa batte un colpo di caduta, ti allarma in uno scatto tempestivo per esclamare – attenzione! –

Nella stessa istantanea fisso l’attenzione di quel tuo movimento
fulmineo, che trasforma in un’elica il lembo di stoffa plissettata, prendendo il volo in alta quota e svestendo ancora una volta gli estremi della tentazione.

Rimango in ginocchio, non so se ferito fisicamente od emotivamente, ma riconosco tutta la fragilità di questo disequilibrio e di tutte le volte che ho perduto sostegno in una qualsiasi tua manifestazione involontaria, seduttiva.

Rimango in ginocchio, sorreggendomi con una mano sul corrimano e accorgendomi che l’altra mano si è sorretta involontariamente alla tua caviglia, smagliando un poco la tua calza scura.

Una stretta troppo forte di concitazione.

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Appartenenza

Ci si appartiene quando si rispetta gli spazi altrui, si comprendono i confini, quelli violabili e quelli intoccabili.

Ci si comprende quando si desidera e si invita invece di imporre o pretendere.

Ci si appartiene quando non si fraintende, ma si intende,

…quando si ha la percezione e la consapevolezza di quello che è davvero ‘nostro’ e di quello che è solamente ‘tuo’.

Ci si appartiene quando un nome non lo si scrive o lo si pronuncia con leggerezza,

…quando mi dici – è bello quando mi chiami per nome.

Ci si appartiene quando si pensa di più ai tuoi di bisogni che hai miei,

…quando si pregiudica un po’ di se stessi per avvicinarsi di più.

Ci si appartiene quando ci si comprende, e nella parola ‘comprensione’ c’è davvero tutto.

Quando la parola del sentimento si unisce a quella del desiderio, quando lo stato d’animo si unisce al senso di eccitazione, allora si ci si appartiene, quando nulla è più scontato, nulla è più banale… nulla è povero, nulla è più vano.

Ci si appartiene quando diventa straordinario usare le parole per dirti: sei mia…

..non perché quelle parole costituiscano significato dell’essere, ma perché possano riaffermare quello che sentiamo anche nel silenzio.

Perché ci sono parole solo dette, parole scritte, parole suggerite, parole rigurgitate e riproposte ma sempre prive di ogni significato e ci sono assoluti silenzi che parlano di più, anche per tutte quelle parole non dette e non scritte… parlano per le tante azioni dimostrate…

Questo è il vero senso di appartenenza.

Il castigo

Non ti avevo mai vista alla guida.

C’eri tu in quel momento al posto di chi conduce, le mani strette sul volante della tua macchina nuova.

La strada aveva qualche disconnessione di carreggiata a tratti per colpa dello sterrato, altre volte causa dei dossi spuntati dalle radici. Dei grandissimi pini secolari ci accompagnavano sull’orlo del tragitto.

La campagna si apriva verso un’area incontaminata naturale e si riempiva di colori in fiore. L’orizzonte si univa alla distesa di un prato verde. Il tuo maneggio abituale distava ancora pochi chilometri; eri solita trascorrere qualche pomeriggio con il tuo cavallo.

L’abbigliamento che indossavi era tipico dell’occasione a differenza mia che ero solo un visitatore curioso delle tue passioni. La tua camicia era bianca e aderente; aveva un colletto orientale alto che tu lasciavi sbottonato fino alla quarta asola. Eri solita e abituata a fare così, dicevi che il tuo décolleté era una delle tue parti migliori e su questo fatto, più di una volta, il mio sguardo interessato e affascinato te ne aveva data piena certezza. Il cotone era di un candido ancora più bianco alla luce primaverile; aderiva ad ogni tua forma rafforzandola voluminosamente.

Sopra portavi una giacca di velluto blu sbottonata per guidare più comoda. Il pantalone colore fango attaccava perfettamente ad ogni tua piega. Aveva il rinforzo interno demarcato da delle cuciture che tratteggiavano la particolarità dello stile. In parte il pantalone veniva coperto da dei stivali di pelle alti fino al ginocchio. Quel tuo abbigliamento ti faceva molto più risoluta del solito e metteva forse troppa evidenza di rigore verso ciò che disapprovavi:

– Non dovresti scrivermi di notte soprattutto se sei stanco di giornata! –

– Beh scusami, ma stanotte avevo un’ora in più da recuperare per via del cambio d’orario legale –

– Rischi poi di addormentarti nel momento in cui dovresti essere più sveglio, a quel punto mi arrabbierei davvero – mentre mi pronunciavi queste parole imboccavi la stradina d’ingresso del ranch facendo sobbalzare l’auto da una cunetta.

– e se poi ti arrabbi che fa? – te lo dicevo con intenzione di sfida pur non comprendendo se effettivamente in quel momento fossi alterata davvero o se stessi solo scherzando con indifferenza.

Per un attimo rimanevi in silenzio. Il mio sguardo rivolgeva verso il tuo per nulla condizionato dal mio e attento nell’ultima manovra. La mia insolenza unita anche forse ad un maliziosa provocazione non trovava sosta: – quindi? Se ti arrabbi che fai? –

Improvvisamente frenavi di colpo parcheggiando l’auto. Per il terreno sconnesso le ruote presero a slittare sull’ultimo metro. Un polverone di coda si alzava dietro i nostri retrovisori.

Ora eri tu a cercare il mio sguardo allarmato dalla frenata; ti voltavi verso di me con una risposta secca e coraggiosa:

– ti metterò in castigo, chiaro? –

Lo riferivi tra il serioso e un leggero ghigno di sorriso che non lasciava intendere cosa stavi mai tramando nella mente. Lo stavi dicendo con ironia? E se fosse un rimprovero o un’intimazione? Deformazione professionale pensavo, da maestra, ma allo stesso tempo iniziai a valutare, in maniera del tutto sciocco e inappropriato, un intento malizioso della ipotetica penitenza.

– beh allora dipende tutto dal castigo – provavo a risponderle con chiara istigazione.

Dopo essere scesa la tua portiera si chiudeva bruscamente; che ti fossi innervosita sul serio? Ragionavo dentro di me rispetto a quanto poco ti conoscevo.

Io uscivo più prudentemente e cautamente mi avvicinavo a te seguendoti, mentre ti ridirigevi verso la scuderia. Il tuo passo era sostenuto, gli stivali battevano a terra con vigore.

Non cercavo di raggiungerti, ti tenevo a due metri. Un po’ perché non avevo ancora intuito lo stato d’animo della tua conversazione, un po’ perché quel pantalone da fantino ti stava magnificamente indosso e non volevo di certo perdermi il movimento dei fianchi che ondulavano poco sotto la giacca.

– mi stai guardando il culo? –

– Cosa? – rispondevo quasi incredulo perché forse era la prima volta che ti rivolgevi così a me.

– mi sembra che tu abbia bisogno di una lezione –

Poco dopo eravamo nella scuderia.
Il profumo del fieno era inebriante; il suono del respiro vivo dei cavalli interrompeva a tratti il silenzio. La fila dei box ai lati rimanevano taluni aperti e altri chiusi. Lo zoccolo dei tuoi stivali risuonava lungo il corridoio andando a sfumare rispetto al mio passo. Ti avevo per un attimo perduta nel momento che arretravo per scorgere meglio i cavalli. Alcuni erano bianchi, bruni… altri neri. Non mi ero mai interessato a questo mondo e non conoscevo affatto nulla di tutto ciò.

E’ avvenuto verso la metà del corridoio, in un istante nel quale ero affacciato ad uno scomparto vuoto, che improvvisamente avvertivo una energica frustata sui glutei. Nel momento che mi sono girato ti ho vista con il tuo frustino in mano stretto dai guanti neri.

– ma che fai? Ma sei pazza? Mi hai fatto male! –

Nel vederti così non pensavo altro che indietreggiare mentre tu all’opposto venivi avanti, sempre più, pressandomi volontariamente verso l’interno del box e chiudendoti così alle spalle l’unico varco di uscita.

– ma che fai? Ma sei impazzita? –

– te l’ho detto, mi sembra che tu abbia bisogno proprio di essere ben educato –

Nei pochi passi che mi rimanevano per addossarmi ad un angolo, agitavi la frusta davanti a me, lanciandomi qualche colpetto sulle gambe e sulle braccia, ma erano più leggere rispetto alla prima per la quale ero ancora indolenzito. In quel momento mi accorgevo che avevi anche un sottile sogghigno sulle labbra, un dettaglio che mi rassicurava su una volontà meno dolente rispetto a quanto sembravi asserire inizialmente.
Allo stesso tempo, oltre ad agitare il frustino, mi accorgevo che con una mano facevi saltare ulteriormente qualche altro bottone della tua camicetta scoprendo ancora di più la fenditura di pelle tra i due seni che si spalancava senza nulla indosso. I capezzoli rimaneva invece coperti sotto il cotone e nella penombra si poteva scorgere visibilmente la punta del loro fermento.

Arrivato in fondo alla stanza, l’ombra si faceva più fitta e lasciava alludere a quel lato d’oscurità che oltre ad essere caratteristica di quel frangente, lo era anche in corrispondenza alle nostre personalità e ai nostri intenti.

Con le spalle ormai al muro facevi l’ultimo passo verso me con il tuo corpo quasi pungendomi con i tuoi capezzoli a punta. Alzavi la frusta con l’estremità del cuoio portando la linguetta sotto il mio mento. Con quel fare ancora sinistro e risoluto avvicinavi il viso a pochi centimetri da me. Gli occhi erano affamati.

In quel momento capivo che c’era una sola volontà e in pochissimo tempo il silenzio fu rotto dal tuo ultimo invito: – sei pronto per la penitenza? –

 

 

Stamattina

Il rumore di uno scatto fotografico suona alle mie spalle. Rompe il silenzio della mattina, impressiona questa immagine di me ormai in piedi alla finestra dopo una notte di sesso.
Ti sei tolta la maschera da notte che ho voluto portassi. La mia schiena è la prima immagine di me che vedi visto che è il nostro primo incontro e ho voluto fosse così: al buio per te, ma io volevo vederci benissimo e comandare.
La notte è passata portandoci fino all’alba senza tregua, rimandando tutte le ore del sonno.
Per ore ti ho tenuta in quel letto disfatto che ora porta tutti i segni dei tuoi ripetuti amplessi.
Ora anche tu puoi guardare l’uomo che ti ha fatto questo.
Ti alzi trascinandoti il lenzuolo come una tunica, perché indosso ti ho tolto ogni cosa.
Ti avvicini a me che rimango immobile, non mi volto per non darti ancora questo vantaggio.
Tocchi con una mano la schiena che hai un attimo prima immortalato. Poi prendi il lenzuolo che hai indosso e lo avvolgi intorno a me, come un abbraccio di spalle, appoggiando la tua testa sulla mia schiena.
Ti chiedo se stai bene, con un tono di rassicurazione, il mio tono abituale, un tono diverso rispetto all’intransigenza che ho avuto durante la notte.
Sì sto bene – mi rispondi, inizi a baciarmi sul collo nell’intermezzo di un’altra conferma – sto bene – ripeti.
Le tue mani sfiorano il mio petto, si allungano in un abbraccio e carezze calme. Nei movimenti continui a trascinarti il lembo delle lenzuola che faticano a starci addosso, un lato cade liberando una tua e una mia tua spalla.
Le mani scendono e mentre lo fanno i movimenti diventano sempre più risoluti. In alcuni tratti le tue unghie graffiano delicatamente il mio sterno, il mio ventre…
Il tuo seno si schiaccia sulla mia schiena e avverto le punte della tua eccitazione.
Ti accompagni con dei baci lenti. Chiudo gli occhi vivendoti come un’onda. Le tue mani iniziano a varcare la cinta del jeans manovrando e facendo saltare il primo bottone.
Le tue mani si infilano nei pantaloni non trovando altri indumenti ostativi. I Jeans si reggono ancora precariamente sui fianchi, le tue mani sono entrate entrambe; la sinistra crea astutamente il varco l’altra afferra il membro.
Lo riconosci, è lui. Lo riconosci dopo aver preso confidenza nella notte. Lo hai preso, desiderato, avuto e sentito ovunque… ovunque…
Lo afferri come per ristabilire la tua proprietá.
É già pronto, ingrossato dai tuoi graffi e dalle tue carezze introduttive. Lo prendi con una mano e inizi a compiacermi con dei movimenti che in poco tempo lo portano a indurirsi e a ingrossarsi fino alla sua massima estensione. Le venature si evidenziano sulla pelle mentre i tuoi movimenti decisi si alternano di direzione, in avanti e in indietro.
Mi afferro a te, ai tuoi fianchi legandoti a me completamente. In quell’unione il mio e il tuo corpo sembrano un tutt’uno, sembra che il mio sesso sia diventato davvero tuo e lo dimeni con sicurezza come farebbe un uomo.
Mi sorreggo perché ne ho bisogno, le gambe mi tremano mentre tu continui a infliggere colpi, affondi e in quegli affondi la pelle di dilata come una guaina liberando la carne. La tua mano difficilmente lo contiene, ogni tanto.devi riprendere l’impugnatura. Il lenzuolo cade del tutto e anche i miei jeans ormai sono scesi alle natiche.
Nei movimenti ti spingi e ti strofini a me cercando il contatto fisico, sento che mi vuoi, ma non vuoi interromperti da questo lavoro.
La tua mano, quella sognata, quella vista mille volte in una foto, quella desiderata è ora qui con me e non si ferma. I secondi mi sembrano attimi infiniti di piacere, non si arresta e io rimango immobile conoscendo già le tue intenzioni e so bene quando solo tu deciderai di fermarti.

Il desiderio che traspare

Non era chiara quale fosse stata la premessa o il preambolo per questo appuntamento.

Credo che non aveva poi così importanza ricordare cosa avesse portato in quel preciso giorno a dirigerci verso quella meta d’oltre confine.

Riguardo la situazione, avevamo parlato a lungo durante tutto il tragitto in auto, non trovando alcuna soluzione che potesse andarci bene ad entrambi. Rimanere o perderci?

– Io e te possiamo essere solo amici ed è già tanto, ci consentirebbe di poter esserci l’uno per l’altro – affermavi con severità.

– non mi dai altre alternative? –

– L’alternativa è chiudere tutto, qui, subito. –

Ero andato troppo oltre, avevi ragione. Come si usa comunemente dire in queste situazioni: avevo fatto tutto da solo. Ero caduto nell’errore di considerare con troppa leggerezza quello che ci stava accedendo. Eppure sulla frase che asseriva con parole alquanto tangibili la cruda verità, mi ritraevo indietro rispetto ai sentimenti e alle emozioni che avevo fino ad ora speso per te.

Mi sottolineavi con attenzione parole come: – peccato – lealtà – fedeltà – la tua famiglia – la mia famiglia – cosa potremmo mai essere? – cosa finiremo per diventare? – quando potremmo mai vederci – dove? Come? – e il figlio che stai cercando? – diventeremo come gli altri? –

Termini che mi sembravano scorressero lungo la linea tratteggiata dell’autostrada frenando l’automobile in movimento. Tutte parole che portavano verso la tangibilità, l’oggettività, la razionalità. Tutto quello che avevo eluso fino ad ora, ingannando i ‘se’, i tanti ‘perché’ e qualche ‘ma’ di troppo.

L’albergo era tra i più lussuosi, sicuramente ti eri servita di qualche telefonata delle tue, sfruttando uno dei tuoi principali privilegi: la notorietà sul campo.

La mia camera non era pronta al nostro arrivo a differenza della tua per la quale ti veniva consegnato il pass. Per me c’era da attendere la tarda mattinata.

Avevi prenotato per due singole. Quel gesto evidenziava ancor di più le tue intenzioni nel prendere le distanze con me. Distanze che più che fisiche erano apprensive e sentimentali. Confini che ora disconoscevano qualsiasi fossero state le tue smanie passate nei miei confronti. Desideri cercati, dichiarati, sui quali io non riuscivo a distrarre l’idea di viverli.

– Intanto che ti preparano la camera, invece di aspettare nella hall, sali con me in stanza? – mi proponevi con un gesto carino che non poteva lasciare interpretazione ad intenzioni diverse, di conseguenza, accettavo con piacere.

Avevo preso i miei e i tuoi bagagli, stranamente pochi, ma del resto il tempo era davvero limitato per quel periodo.

L’ascensore dorato si chiudeva dietro di noi portandoci al piano più alto, quello delle suite.

Il movimento era comodo e quasi impercettibile nella sua veloce salita. Anche i miei occhi salivano su di te allo stesso modo, lenti e impercettibili. Ti fissavo dal riflesso dello specchio, partendo dal basso, salendo piano lungo i dettagli della tua forma, ti studiavo, mentre tu fissavi il menù del pranzo. Indossavi dei pantaloni di lino beige su una camicia bianca con alcuni dei primi bottoni aperti che lasciavano intravedere il tuo sensuale decolté. Su quell’apertura, mi ci perdevo sempre ogni volta, forse perché ero troppo stregato e forse perché ero molto soprappensiero. Turbato da quanto ci eravamo ripromessi, cercando di assimilare la sensazione e l’accettazione del distacco, che sentivo interiormente rifiutare e starmi stretto.

Amici – pensavo dentro me – cosa significava amici?

Solo la tua voce riusciva a distogliermi richiamando la mia attenzione ormai persa a lungo sulla piega del tuo seno.

– Sono stanca dal viaggio, non vedo l’ora di buttarmi sotto la doccia e rigenerarmi –

Il mio silenzio continuava incessante. Non mi domandavi neppure perché non parlavo più, credevo intuissi da la mia confusione mentale. La tua non la davi a vedere, ti difendevi come al solito, ma eri anche tu sconvolta allo stesso modo.

Quando hai aperto la porta, ti sei prontamente fatta strada nell’ambiente. La giacca che poco prima indossavi cadeva al centro del letto. Sui pochi passi avevi lasciato la scarpa sinistra e poco dopo, saltellando sul piede nudo, la destra afferrando il tacco con una mano. Il letto doveva avere una misura maxi, mi sembrava più grande del solito. Il lampadario al soffitto era di cristallo e rispecchiava la luce delle imposte sulla parete come infrangendo diamanti di alcuni colori attorno a noi. La stanza richiamava molti tratti di blue – il tuo tono preferito – consideravo.

Lasciavo la porta alle mie spalle per cercare un punto dove potermi accomodare, notavo che la doccia era di quelle a pareti, centrale nella stanza, separata dal resto del bagno. Era certamente scenografica e di grande effetto, ma non ti avrebbe restituito mai il relax che cercavi, conseguenza del fatto che fossi anche io nella stanza con te e soprattutto essendo bene a conoscenza della tua timidezza e riservatezza.

Anche tu in quel preciso momento te ne accorgevi; avevi un’espressione tra il dissenso e lo stupore. Mi rivolgevi così uno sguardo meravigliato che anche se vuoto di parole voleva intendere una cosa sola: – e adesso? –

– Dai scendo giù e aspetto che mi assegnino le chiavi per la camera, così tu puoi rilassarti e io inizio a prendere coscienza della situazione –

– Quale situazione? –

– Che siamo solo amici. Che tutto ci è negato. Che non abbiamo alternative. –

Lo dicevo con una voce rassegnata e tremante e un’espressione che riusciva a trasferirti tutto il mio stato di sconforto. L’avevo capito dal fatto che poco dopo ti avvicinavi a me lentamente per alzarmi il viso con una carezza, quello sguardo che ormai era rivolto verso il basso, un poco perso nel niente.

– Guardami, negli occhi, non fare così… tu sei importante per me –

– Lo sei anche tu, ma tu hai scelto, per me, per noi… forse era meglio non scegliere… –

– Che significa non scegliere? Rimanere in un limbo di privazioni? Non lo so, so solo che sono molto confusa, per tante cose e lo sai… –

Ti ho guardata negli occhi, intensamente. Uno di quegli sguardi che eravamo abituati fare, quelli che parlavano soli nel silenzio, in un dialogo dell’anima che intendevamo bene.

Ogni tanto i tuoi occhi si abbassavano un poco per guardare le mie labbra semiaperte. Con i miei occhi facevo ugualmente.

In quel momento di desiderio, compromettente, ingannavamo entrambi ogni altra possibilità anelata. Viravamo coscientemente in un abbraccio che sapeva di così tanta innocenza. Eravamo immobili, presi da quella stretta dove per un attimo ci sentivamo noi, i noi di sempre, i noi amanti, i complici e realmente poco amici.

Recuperate nuovamente le distanze, confermavo che sarei sceso lasciandoti nella tua privacy. Ti conoscevo e avresti avuto qualche imbarazzo forse anche con tuo marito a farti la doccia nuda davanti ai suoi occhi, figuriamoci ora che ero presente io.

– Sai che faccio? Non mi tolgo la camicia… faccio la doccia con la camicia indosso, ma tu rimani, non lasciarmi sola. – Davvero in modo inaspettato mi chiedevi così di rimanere?

Non so come ti è venuta in mente quell’idea, ma ho voluto assecondarla perché comprendevo che ti avrebbe fatto piacere che fossi lì a tenerti un poco di compagnia in un momento senz’altro di sconforto. Volevi rimanessi ancora un po’ in bilico a quella sensazione non definita, non risolta, dove era in dubbio capire cosa noi potevamo essere ancora.

– Sarà come fare una doccia al mare… – trascuravi con leggerezza.

Ti dirigevi verso la doccia aprendo il getto d’acqua bollente che in pochi minuti rilasciava uno strato di condensa su tutta la parete in vetro. Nel frattempo sfilavi lentamente i pantaloni di lino e le calze scure rimanendo con il cotone bianco della camicia che copriva leggermente la brasiliana.

Ti muovevi nei tuoi gesti lenti, pieni di finezza e non curante della mia presenza. Probabilmente per assicurarti di fare tutto in modo spontaneo. Ti eri imposta nella mente di essere sola in camera, un’astuta estromissione mentale che invece mi concedeva di sentirmi unito a te in quei minuti di intimità e purezza.

Io ero comodo sulla poltrona che dava fronte alla lastra ricoperta di vapore.

Nell’istante che entravi in doccia, la breve visione spoglia del tuo corpo scompariva come tutto il resto.

Il tuo fisico si mostrava solo come un’ombra sensuale e stilizzata oltre il vetro. L’esalazione componeva un acquerello ritratto sulle tue linee e sugli indumenti sfumati nel bianco. Le tinte lasciavano immaginare le tue forme e i tuoi movimenti puri, annebbiando tutto il resto del dettaglio.

Nei primi minuti l’immagine di te era somigliante ad un’opera d’arte da contemplare con piacere e alla giusta distanza. Le linee sfumavano dal bianco al rosa, aprendo sfere sfumate in acqua. Le pennellate astratte e casuali cambiavano rispetto a nuove colate sul tessuto che sembravano fossero di colore chiaroscuro.

Successivamente passavi la tua mano sul vetro per lasciare uno spiraglio di visibilità. Aprivi così una piccola finestra di dettaglio sul tuo viso che potevo osservare. Da quel cerchio nitido tu potevi intravedere me ancora seduto e distante; notavo che mi sorridevi maliziosamente e mi ricercavi con lo sguardo.

Sono bastati pochi altri secondi per riannebbiare lo spiraglio concesso, uno spiraglio che aveva acceso in me il desiderio acceso di avvicinarmi. Abbandonavo dietro me la poltrona da spettatore per avvicinarmi al vetro che ci univa e ci disuniva allo stesso tempo.

Ero io ora che provavo a scostare il vapore dal vetro, ma con insuccesso poiché il velo rimaneva interno dal tuo lato. Tuttavia il movimento della mia mano aveva richiamato la tua attenzione.

Tu stessa per effetto riproponevi il medesimo movimento, probabilmente con la voglia di inseguire il mio palmo che si muoveva sul cristallo, oppure per permettere di riaprire un nuovo varco dove potevamo guardarci negli occhi ancora per un po’.

Mi accorgevo inoltre che qualsiasi direzione potesse prendere la mia mano, tu continuavi a seguirla con la tua scoprendo così nuove parti di te distinguibili oltre il vetro. Mi sembrava seguissi i movimenti come uno specchio.

Di questo gioco voluto o casuale, io mi sentivo quasi in dovere di approfittarne. Non era forse un’opportunità concessa?

Nei miei e nei tuoi movimenti ondulatori che seguirono, liberavo interamente il tuo viso in modo da poterti guardare negli occhi intensamente.

Il vetro ci separava. Ci slegava e ci univa. Ci rassicurava rispetto a quanto stavamo facendo, tutto diventava eccezionalmente puro, corretto e lecito.

Proseguivo a scendere scoprendo nuove parti del tuo corpo, come se stessi togliendoti un abito di fumo. Scendevo lungo il collo mentre ti lasciavi un movimento all’indietro con la testa, come se in quell’istante stessi percependo la mia mano che scorreva sulla pelle.

Anche l’altra mano, la sinistra, l’appoggiavo per ricercare un sostegno. Simmetricamente tu posavi la destra alla stessa speculare altezza. La mia fede liberava un suono sul vetro attutito subito dallo scroscio dell’acqua.

Con l’altra mano mi calavo all’altezza del tuo seno, il sinistro.

Il dettaglio rimaneva coperto dal tessuto bianco attaccato al petto come una resina trasparente. Si potevano vedere sia le diverse sfumature della pelle, da quelle più chiare a quella più scura del capezzolo, sia l’altezza della punta che spiccava trafiggendo di eccitazione.

Continuavo a muovere la mano, fremevo, come se volessi cercare un contattato con quella parte del tuo corpo. Lo capivi e contraevi così quei venti centimetri che separavano il corpo dal vetro. Teneramente appoggiavi il tuo seno all’altezza della mia mano illudendo il tocco. Il poggiarsi del tessuto con il cristallo metteva ancora di più in evidenza tutti i particolati.

Mi sembrava di morire in un gioco tra piacere e impazienza. Tra l’averti così vicina e il non poterti toccare. Sapevamo entrambi che potevamo varcare in un attimo quel vetro, ma con l’effetto di sentire quel senso di immoralità con noi stessi, con le nostre scelte di vita. Sapevamo che non potevamo permettercelo. Allo stesso tempo rimanevamo così stupidamente incoscienti rispetto a quanto il confine del proibito fosse già stato abbondantemente superato dalle nostre azioni.

Palpavo con la mia mano come mimando il gesto e seminando impronte indefinite sul vetro. Tu continuavi a spingere il tuo seno morbosamente sul mio palmo aiutandoti nel movimento con la tua mano. Sorreggevi e stringevi la massa ridirigendola emettendo un suono scivoloso. Nei movimenti la camicetta si scostava liberando tutto il tuo nudo ardore.

Ti addossavi con tutto il corpo sulla lastra completamente in balia del desiderio. Avresti dato tutto per sostituire il contatto astratto con il mio corpo.

Preso dallo stesso trasporto, mi abbassavo con il viso e con la bocca simulando un bacio intenso sulla punta del capezzolo. Tu prendevi ancora di più a dimenarti come se il movimento potesse sciogliere quella voglia che non contenevi più. Il delirio scorreva nelle vene come l’acqua sul tuo corpo.

La mia lingua leccava il vetro caldo, umidiva la lastra dove rimaneva schiacciato il seno da tutto lo spasimo. Continuavi a premerlo su di me, sulla mia lingua guardandomi fisso con gli occhi e in altri istanti li chiudevi per smarrirti nel piacere.

Tutto il corpo poggiava a tratti sul bagnato. La stoffa si colorava di rosa sulla pelle bagnata. Gli sguardi si rimiravano.

Ti piaceva che ti guardassi e mi piaceva guardare ogni dettaglio.

Poco dopo, non sapevo più che direzione prendere.

Se scendere ancora, calandomi e lasciandomi andare più giù, abbandonandomi nel desiderio, protetto da quel vetro di separazione che in qualche modo tutelava tutte le nostre intenzioni.

Non sapevo se fermarmi, razionalmente tornare al mio posto su quella poltrona distante, tornare alla mia vita di tutti i giorni, giusta e privata di molto, tornare ad essere amici.

Non sapevo… se varcare il limite. Entrare nella doccia con te per perdermi in un abbraccio interminabile, una stretta sotto la pioggia scrosciante che sapesse solo di infinito, che sapesse solo di amore.

Quello che era stato poi, è oggi un mistero che nessuno potrà conoscere mai.

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