Genesi

Lui era il tuo datore di lavoro, aveva quarantadue anni in quel periodo. Era titolare di un negozio di parrucchiere a viale delle Fornaci, cento metri circa dalla Basilica di San Pietro. Uomo pulito, classico, vissuto. Entrava sempre in giacca e cravatta, gli calzava come un modello, sembrava un attore. Era gentile con tutte le clienti e severo con le dipendenti al momento giusto, e nella giusta maniera.

Tu eri diventata la sua sciampista, ne avevi soli ventidue di anni. Eri partita dalla Sardegna a diciannove per vivere con tua zia Efisia e diventare una parrucchiera.

Era il tuo sogno, sogni semplici, essenziali i tuoi.

Non ne potevi più della solitudine di una Barbagia, degli obblighi familiari di tua madre e le botte di tuo padre. Sei scappata via da Gesturi, quel piccolo paese al centro dell’isola, ai piedi del monte La Giara. Un paesino di un migliaio di abitanti, persiane chiuse, donne vestite di nero nell’assolata campagna, odore di fieno, carretti trainati da asini, diffidenza, pregiudizi, isolamento.

Eppure sapevi che di donne ne aveva avute, ne aveva ancora una in quel periodo: Elvi. Ti aveva parlato di lei, ti aveva avvisato, è sempre stato schietto. Ma il tuo amore era incondizionato.

Ti sei lasciata portare via da lui, in quei due giorni festivi. Adulto, conoscitore dei sensi, infallibile. Ti ha portato nel suo paese: Castellamare di Stabbia. Ti ha fatto gustare il sapore del mare, delle terme, le affinità partenopee. Ti raccontava di quando da ragazzino, rastrellava le cozze e le mangiava crude. Aveva gli occhi lucidi nei suoi racconti, sembrava quasi piangesse.

Poi ti ha portato a fare all’amore. Ti ha cantato: “Voglio amarti così…”. Ha lasciato tutto e soprattutto tutte.

Ti ha sposato e ti ha promesso di amarti per tutta la vita.

E’ così ha fatto.

Solo poi anni dopo sono nato io….

Digitalizzato_20160305 (191)

Imprinting

Sono cresciuto all’interno di un negozio di parrucchiere per signora, viale delle Formaci, Roma. Ricordo le donne in camice rosa, gli odori delle lacche, il rumore del fono e i colori dei bigodini con cui giocavo.

Ricordo quando tiravo loro il grembiule, le voci che chiamavano per il mio nome, al diminutivo… e le clienti che mi sollevavano di peso per sorridermi con quei visi incipriati e manicure appena fatte – stili di inizi anni settanta.
Il mondo femminile mi ha sempre affascinato, trattiene in se tutti i particolari che visivamente mi compiace accogliere.
E’ un mondo accattivante e ne vale sempre il desiderio di esplorarlo – che male c’è?
Lo faccio comunque con distacco, con una separazione emotiva che non sempre viene compresa ed accettata; le pulsioni attrattive di questo universo sull’uomo si fanno pungenti, colgono e mettono in tensione sempre il nervo più libidinoso, diversamente il pieno controllo di un distacco, mi permette di anatomizzare questo universo, cogliendone sfumature, suoni e anche piaceri.

Da adolescente, mia madre trasferì il suo negozio da parrucchiera sotto la nostra abitazione; le sue clienti attraversavano un cortile per recarsi dall’ingresso, pochi passi dal giardino al negozio.

Le conoscevo quasi tutte, erano più di quattrocento, ma nella quantità a me piacevano in particolare quattro.

Entravo di nascosto in negozio verso l’ora di mezzodì, tutti erano in pausa. Consultavo l’agenda degli appuntamenti settimanali per annotare alla mente in quale giorno e a quale ora fossero passate. La signora Saveria, Rita Vespa, Anna e quella che chiamavano ‘la Professoressa, era anche il sopranome riportato settimanalmente in agenda.
In cantina, lungo l’intercapedine umida, una piccola finestra dava sul terreno del cortile e da quel nascondiglio, per il breve tratto di strada, potevo osservare le gambe di queste clienti transitare verso l’ingresso del negozio. Era un percorso breve, cinque forse sei passi prima che una di loro salisse i tre gradini.

Proprio in quell’ultimo istante la posizione poteva essere ancora più ottimale, ma la frazione di secondo era minima. Solo alcune volte sono riuscito a scorgere l’accenno di un ricamo sull’orlo della Professoressa.

Non ricordo quando ho smesso questo rito, forse quando ho iniziato ad avere maggiori possibilità di osservazioni dirette sulle donne.
Ma il ricordo di quel diversivo mi riempie di simpatia, leggerezza e di nostalgia.