Justine Fober

Qualche volta la si intravede ancora, la sera, è un’espressione a ravvisarla, una movenza a distinguerla, una luna piena, le pieghe di un abito che ha scelto lui stesso nel suo armadio e che lei indossa da quando egli disse: “ti amo”. Un calice di vino rosso ondeggia in mano al cospetto di un mondo decisamente lontano, un dettaglio minimo del tutto, a molti estraneo, ma comune – maestoso – solo a loro.

E’ Justine Fober, nostalgica su un molo, nel cuore d’un agosto che sognava diverso; la riconosco è proprio lei, quando le brillano gli occhi e non cede più ad un sorriso beffardo. Lei che scruta gli uomini poi sfugge al loro sguardo per non invitarli ulteriormente; lei che ci somigliava, che passeggia lentamente, guardandosi intorno e trascinando in terra un fazzoletto estivo, forse un foulard bianco con una maglia a grana di riso.

Fober… di un etimo incerto, un noema semplice, di una grafia emotiva ed un tratto fragile tracciato su una superficie di velluto grigio, una grammatura consistente che poteva anche reggere il disegno… ed un epilogo disfatto per mano della mia stupida incertezza di uomo.

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Incontro

È così che doveva avvenire.

Pochi minuti dopo la partenza era possibile scorgere ancora il panorama di costiera. La mia posizione virava nel verso di prua del traghetto, la balaustra era bagnata di salsedine e mare.

Tu eri li, con un tubino lungo che vestiva i tuoi fianchi ed una sciarpa viola che ricordava il colore dell’anno. Il cappotto raccolto sulla panchina. Un occhiale sul viso nascondeva lo sguardo che sembrava essere nostalgico. La mia partenza non aveva una meta particolare, ma in quel momento ero incuriosito dal sapere quale fosse la tua destinazione ed ancor di più la tua provenienza. Sembravamo immersi in un quadro di Vettriano.

– Buongiorno – e non sono riuscito a dire di più, ma era così che doveva avvenire. Voltandoti riuscivo a vedere la mia inquadratura nel riflesso delle tue lenti.

– Buongiorno – hai risposto; era così che doveva avvenire.

Poco più avanti una bambina era piegata sulle ginocchia sostenendosi sulla ringhiera, guardava la schiuma disperdersi nelle acque; che fosse tua figlia?

La vicinanza non poteva dare giustificazione valida al nostro silenzio e al corrisposto desiderio di conoscenza… Allo stesso tempo le nostre personalità sembravano avessero già stabilito un dialogo fatto di gestualità e percezioni.

– Beh..? Non dice nulla? –

– Non che sia mai stato di troppe parole,
ma ci sono momenti dove il silenzio
di un uomo ha un tono che può sembrare perfetto. –

– forse la disturbo, non vorrei farle
perdere tempo in frivolezze… –

– Si figuri, l’ascolto volentieri;
ci sono piccole cose che di sciocco hanno solo la sembianza. –

– …mi verrebbe da farle un complimento. –

– Non me lo faccia… –

– Perché? Non le piacciono i complimenti? –

– Più che lusingato, mi piacerebbe essere incuriosito;
dunque non pensiamo a me, mi parli piuttosto di lei… –

– Le darei un vantaggio… –

– Le prometto che contraccambierò ogni suo favoritismo… –

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Rewind

Non esistono delle stagioni, il tepore metropolitano è quasi sempre lo stesso durante tutto l’anno. Una luce pallida, artificiale, evidenzia le tinte della rete di Milano: la gialla, la rossa, la verde. Le musiche sono sempre le stesse, fisarmoniche o violini, timbri che riconducono alle melodie polacche di Bregovic.

E torna come un rewind quel breve racconto, un disco in vinile che continua a suonare non annoiando mai nessun ascoltatore. Lo hanno udito, lo hanno immaginato, lo hanno invidiato… lo hanno persino copiato; e noi lo abbiamo lasciato fare, perché eravamo soltanto noi ad averlo davvero vissuto.

Lui aveva trent’anni, una macchina fotografica, un treno da perdere. Lei di anni ne aveva trentotto, il treno lo aveva già perso, ma non lo sapeva ancora.

Lui scendeva le scale della metropolitana.

Lei le saliva. Lui la vide, lei lo vide… Milano si fermò.

Lui accarezzò con lo sguardo i quindici denari di lucido nylon autoreggente che salivano al piano superiore.

Scavalcò il mancorrente.

Lei insieme alla testa e al treno perse le chiavi di casa. Non si presentò mai all’appuntamento.

I loro pensieri trovarono l’intreccio in un angolo di sotterraneo, i loro passi salirono… salirono su in superficie, fino a lasciare impronte parallele e indelebili nella neve di un parco.

Per un anno non uscirono dalla mansarda del suo Atelier, ma non ce se accorsero mai.

Faceva freddo e faceva anche molto bohémien.

Sotto ordinazioni qualcuno portava piatti da mangiare e libri da leggere. Nonostante tutto mangiavano e con molto appetito.

E tra un delicato amplesso e un fotografare d’istinto, sfiniti di piacere, si leggevano a vicenda qualcosa, a volte persino durante, a riprova che le due cose non erano poi del tutto incompatibili.

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Noi poeti

Noi poeti
un nastro bianco intermittente sull’asfalto
silenzio e tre di notte
serrande chiuse nel borgo di Nettuno.

Noi poeti
non di professione
poveri in un mondo che non ci appartiene;
noi
che imbocchiamo un vicolo secondario
stretto
meno vissuto
meno apprezzato.

Noi poeti che non ci incantiamo davanti a fuochi d’artificio
bensì osserviamo visi scolpiti della gente.

Noi
che traballiamo con vodka in mano
oziando
su gradini sporchi
osservando sandali di donne.

Noi poeti
ebbri di concetti
noi poeti che ci annusiamo
che ironizziamo
che assassiniamo neuroni
che ci sbronziamo per stordire ogni nostra cognizione.

Noi poeti
che contiamo i passi
che osserviamo granuli di sabbia prima delle onde
noi poeti che nuotiamo a riva e camminiamo a largo.

Noi
che ci allontaniamo dall’egocentrismo
che ricerchiamo l’assolutismo;
noi che non abbiamo natura
ma ci riconosciamo in ogni cosa.

Noi poeti che impazziamo per un dipinto
(se acquerello variopinto),
noi poeti che camminiamo con una biro in tasca
un piccolo quaderno
e con pantaloni imbrattati d’inchiostro nero.

Noi poeti che viaggiamo
romanzi persi sui sedili posteriori.

Noi
che manchiamo sempre strada
oltrepassiamo incroci
arrischiamo inversioni,
non badiamo a indicazioni
poiché distratti tra versi di poesie.

Noi poeti a piedi nudi
le cuciture delle scarpe ci tormentano;
noi che sapevamo sognare
noi che sappiamo piangere
che sappiamo ancora ascoltare.

L’abbiamo richiesto noi questo talento?

Ci hanno commissionato emozioni affinché potessimo scriverle.
E gradualmente ogni restante inquietudine
malinconie
solitudini
affanni.

Noi poeti che non saremmo mai soddisfatti.
Noi poeti inutili
noi poeti soli.

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Muratti

Appena alzata ti avvicinavi alla finestra della cucina per capire che tempo faceva fuori, ti accendevi una Muratti e lasciavi che il fumo uscisse dall’imposta verso il cortile. Io nel frattempo mi versavo del caffé appena fatto, ti osservavo di spalle mentre studiavi l’esterno oltre il sottile velo delle tende; ti sentivi bene… e ti sentivi mia.

Più o meno lo stesso rito avveniva la notte, ma fuori rimaneva tutto in ombra; mentre io dormivo, tu ti alzavi nel cuore delle ore notturne, insonne di un’ansietà traboccante. Solamente dall’esterno, oltre i vetri e la patina di cotone, qualche felino poteva intravedere nel buio la punta della tua sigaretta accesa; eri tu in piedi alla finestra con lo sguardo perso nel buio, a domandarti, quando e come… avresti pagato tutta quella felicità che ti stavo regalando.

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Fotogrammi letterari

Fogli su fogli si ammassavano sulla scrivania di noce, una grafia nera vacillava su ogni rigo, era la mia scrittura.

Tu incuriosita e certa a priori del mio consenso, protendevi la mano sollevando una delle pagine, la piccola quantità di polvere accumulata in superficie si volatilizzava attraverso barlumi di luce.

A cosa stavi lavorando?

L’amnesia non mi permetteva di ricordare un solo avvenimento narrato all’interno di quei fogli; da quanto quelle pagine erano li? Non sapevo dare risposta ai quesiti posti, potevo solo rifiutare nel riconoscere un vero impegno letterario in quegli appunti abbandonati.

Ma non mi avevi detto che non scrivevi più? –

Non so cosa tu stia leggendo in verità…

Poi balbettavi qualche parola nella difficoltà a comprendere quella mia grafia sbarazzina. – Oltre i mar… margini non osser… osse-rva-bili – in seguito tutto d’un fiato – Oltre i margini non osservabili, c’eri tu.. e ancora tu. – Proseguivi, a brandelli di parole, congiungendo sillabe come fai solitamente con le note dei tuoi nuovi spartiti da pianoforte. Poi su l’ennesimo singhiozzo ti interrompevo recitando istintivamente il paragrafo:

Oltre i margini non osservabili, c’eri tu e ancora tu.
Tu rovesciata sul letto e stremata dal tempo; io che avevo appetito e ritagliavo una mela.
Ancora un tuo gemito, mentre addentavo; smarrivo l’attenzione nell’osservare le tue vesti, un patrimonio abbandonato a terra alla conquista delle nuove pieghe che tracciavano un sentiero di passione.

Arrivato al punto accapo ero catturato da un leggero rimorso: nel totale flashback di quel capoverso, avrei dovuto innegabilmente chiarire anche le probabili curiosità che sarebbero sopraggiunte? Per esempio: quando avevo scritto? A chi era stato dedicato? Ma il tuo riscontro sopraggiungeva più che discreto malgrado il desiderio di recuperare conoscenza del tempo che ci aveva diviso da più di un anno.

Splendido – posso leggere ancora?

Prolungavi la mano su un nuovo foglio con un leggero timore di scoperta e allo stesso tempo l’eccitazione nel recuperare qualche storia nuova.

Io intanto mi avvicinavo per aprire le imposte e permettere al mattino di entrare. Attorno al casale l’erba selvatica era cresciuta alta, ricopriva metà delle ruote posteriori del vecchio trattore di mio padre; la ruggine non aveva ancora mangiato la scritta Massey Ferguson.

Le tue figlie giravano l’angolo, potevo osservarle dall’alto mentre giocavano, ridevano inseguendosi l’una con l’altra. La più grande che riusciva facilmente a staccare la più piccola che, con grande fatica, correva sull’erba alta con lo sforzo simile a chi corre sull’acqua. Le loro risa salivano fin su al secondo piano, risuonando nella nostra stanza in penombra

Il disordine delle cose, la trascuratezza di quel luogo riportava la stessa sconsideratezza dei paragrafi che attentamente leggevi. L’erba alta e i fiori di campo crescevano in maniera del tutto naturale, le mie parole similmente, erano nate senza che ne potessi ricordare l’ordine cronologico.

Faticavo a riconoscermi protagonista in tutto ciò che mi era accaduto nell’ultimo anno. Il tuo distacco aveva originato un’assenza anche dentro la mia vita, come se una parentesi temporale fosse evaporata dopo il tuo rientro, ne rimaneva qualche istante trascritto… che si poteva ancora scorgere attraverso quelle pagine.

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Imprinting

Sono cresciuto all’interno di un negozio di parrucchiere per signora, viale delle Formaci, Roma. Ricordo le donne in camice rosa, gli odori delle lacche, il rumore del fono e i colori dei bigodini con cui giocavo.

Ricordo quando tiravo loro il grembiule, le voci che chiamavano per il mio nome, al diminutivo… e le clienti che mi sollevavano di peso per sorridermi con quei visi incipriati e manicure appena fatte – stili di inizi anni settanta.
Il mondo femminile mi ha sempre affascinato, trattiene in se tutti i particolari che visivamente mi compiace accogliere.
E’ un mondo accattivante e ne vale sempre il desiderio di esplorarlo – che male c’è?
Lo faccio comunque con distacco, con una separazione emotiva che non sempre viene compresa ed accettata; le pulsioni attrattive di questo universo sull’uomo si fanno pungenti, colgono e mettono in tensione sempre il nervo più libidinoso, diversamente il pieno controllo di un distacco, mi permette di anatomizzare questo universo, cogliendone sfumature, suoni e anche piaceri.

Da adolescente, mia madre trasferì il suo negozio da parrucchiera sotto la nostra abitazione; le sue clienti attraversavano un cortile per recarsi dall’ingresso, pochi passi dal giardino al negozio.

Le conoscevo quasi tutte, erano più di quattrocento, ma nella quantità a me piacevano in particolare quattro.

Entravo di nascosto in negozio verso l’ora di mezzodì, tutti erano in pausa. Consultavo l’agenda degli appuntamenti settimanali per annotare alla mente in quale giorno e a quale ora fossero passate. La signora Saveria, Rita Vespa, Anna e quella che chiamavano ‘la Professoressa, era anche il sopranome riportato settimanalmente in agenda.
In cantina, lungo l’intercapedine umida, una piccola finestra dava sul terreno del cortile e da quel nascondiglio, per il breve tratto di strada, potevo osservare le gambe di queste clienti transitare verso l’ingresso del negozio. Era un percorso breve, cinque forse sei passi prima che una di loro salisse i tre gradini.

Proprio in quell’ultimo istante la posizione poteva essere ancora più ottimale, ma la frazione di secondo era minima. Solo alcune volte sono riuscito a scorgere l’accenno di un ricamo sull’orlo della Professoressa.

Non ricordo quando ho smesso questo rito, forse quando ho iniziato ad avere maggiori possibilità di osservazioni dirette sulle donne.
Ma il ricordo di quel diversivo mi riempie di simpatia, leggerezza e di nostalgia.

Emozionarsi ancora

Non sono unicamente i sensi materiali a permetterci di capire che siamo in vita;
è l’emozione la vera percezione ‘complice dell’esistenza’, quella meraviglia che nasce da una sciocchezza e ti sdebita con tutto… è quell’impressione del momento, è la consapevolezza di un presente esclusivo, di un attimo, il sentore di ciò che può divenire eternità.

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Va bene così…

Va bene così… ma mi cade una lacrima.
Va bene così… ma fisso il vuoto.

Va bene così… ma penso:
– dove siamo? –

Va bene così… ma ho un po’ paura.
Va bene così… va bene così…

Va bene così… ma vorresti baciarmi.
Va bene così… ma vorresti svestirti.
Va bene così… ma vorresti ancora amarmi.

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…ma va bene così.

Tre

Passo la dogana senza particolari controlli. L’auto supera tre uomini in divisa.
Finanzieri credo. Di certo oltreconfine non ci conosce nessuno. È lì che abbiamo deciso di incontrarci.

Qualche giorno prima scopriamo dalla data che si tratta del quattordici. Nessuno di noi aveva fatto caso a questa strana coincidenza.

Nel giorno del nostro appuntamento cadono tre mesi esatti dal nostro primo casuale incontro.

Tre mesi – mi ripeto dentro. Eppure mi sembra come fosse una vita. Strana sensazione del tempo quando senti di vivere intensamente qualcosa.

Tre mesi, penso, intanto che metto la freccia per l’autostrada.

Tre, un numero che ancora di più trattiene in sé il suo senso di perfezione, ma poco di sacralità, forse più legato ironicamente alle cantiche poichè mi fai percorrere le vie brevi tra paradiso, purgatorio e inferno; in senso buono s’intende.

Sei il mio peccato, le mie confessioni e di certo è proprio il paradiso quello che tocco con un dito quando ci avviciniamo.

Spengo la radio.

Tre mesi di tentazioni e di desideri. Di incertezze e di conquiste. Di emozioni forti, come quella strana gelosia che mi prendeva e alla quale non sapevo dare senso, ma era così. Una gelosia che poi si è trasformata nel tempo anche ad un senso di eccitazione per una donna che piace, che provoca, che tutti vorrebbero scopare, possedere, ma che alla fine è solo mia.

Tre mesi di intensità, di sentimento. Perchè non avremmo mai potuto limitarci al solo eros. Il pathos, quello che sentiamo dentro, nell’assoluto rispetto per le emozioni che ogni giorno ci regaliamo. Non ci scontriamo mai, né ci facciamo travolgere dell’emotività e questo ci rasserena, ci rassicura a poter eccedere ogni possibile confine.

Entro nel parcheggio del centro commerciale (ma so che non è così che dovrei chiamarlo).

Tre mesi e due vite.

Lontane, diverse. inizialmente dalle sembianze perfette e successivamente, nel nostro confrontarci, nel nostro scavare, abbiamo fatto emergere quello che ci manca di più raggiungendo qualche lato di naturale imperfezione.

Lo avremmo mai scoperto differentemente? Probabilmente no. Non ne avremmo mai parlato a nessuno, con nessuno. La fiducia creata attraverso un percorso fatto di piccoli passi, messi accuratamente l’uno avanti l’altro è qualcosa di unico e irripetibile.

Sono tre mesi tutti di noi.

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