Bar tentazioni

Ritorno a quel tavolino, al Bar Tentazioni.

Non è un modo per definirlo, l’insegna del bar riporta realmente questo nome; ironia della sorte.

Mi siedo nello stesso luogo dove sedevo con te ormai una primavera fa. Non ci sentiamo più da mesi e qui sembra tutto cambiato. Il cielo non è lo stesso, non c’è sole, ci sono solo nuvole grigie.

Io avevo preso un caffè shakerato, ordino invece uno normale, leggermente lungo.

I miei sentimenti sono rimasti qui, ma so che per te non è andata così.

Non mi servirebbe a nulla parlartene, raccontarteli, perché il nostro tempo è davvero finito.

Sei altrove. Altrove con le tue smanie, altrove con i tuoi giochi, quelli ai quali non ho voluto giocare, altrove anche con quella poca sensibilità che poteva rimanerti e che non riservi di certo più per me.

Non ti chiamo perché so che mi farei male. Non ti chiamo perché voglio tenerti con un ricordo bello, dei momenti davvero piacevoli trascorsi a chiacchierare insieme.

Allora mi stringo a me, mi stringo alle mie emozioni, sole, grandi.

Mi stringo ai miei sentimenti mentre sorseggio questo caffè al quale non ho voglia neppure di aggiungere lo zucchero; il sapore così è amaro, amaro come qualche volta la vita è…

Sembra che tutto si sia fermato in quel parcheggio.

Mi chiedo se ho sbagliato.

Forse non le avrei dovuto spendere tutte queste emozioni.

Avrei dovuto trattenerle e regalarle a chi mi ama davvero.

Sì, mi dico, non avrei dovuto sprecarle.

Erano qualcosa di davvero prezioso per me, un valore che non doveva essere così distrutto.

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André

Andrea non lo vedevo da quattro anni.

Attraverso i traslochi ho sempre custodito il suo scatolone di videocassette sul corso di chitarra; lui è un musicista, io ho sempre cercato di mettere insieme qualche nota.

Trovo finalmente l’occasione di sentirlo, proponendo lui di rivederci e restituirgli quanto prestato. Mi dà un nuovo indirizzo; si è spostato da un anno in una nuova zona del pavese. Decido di raggiungerlo.

Parcheggio su una piazzetta tra case nuove e case della vecchia Pavia. Andrea mi viene incontro alla portiera. Lasciamo lo scatolone nel porta bagagli e ci avviamo verso un ristorante che si chiama “Bella lì”

Andrea mi presenta la sua nuova fidanzata: Nella, che deriva da Antonella. E’ sempre stato taciturno Andrea, Nella è il suo opposto.

Vengo pertanto a sapere quanto accaduto ad Andrea negli ultimi quattro anni da Nella; Andrea si limita ad annuire con il viso, lanciando qualche espressione con gli occhi che talune volte mirano verso di me e Nella, altre volte questi si alzano distratti sopra di noi in direzione dello schermo che trasmette una replica di qualche mondiale di calcio.

Ha conosciuto Nella in protezione civile, ma da due anni lei non va più in protezione per problemi ad un menisco; mi accorgo difatti che Nella vacilla un pochino mentre cammina, in compenso fa ora l’infermiera in ortopedia al policlinico – strana ambiguità. Andrea è già il secondo anno di cassa integrazione, ha dovuto lasciare la casa, facendosi aiutare da suo zio che ha offerto loro un piccolo bilocale in questo borgo dimenticato.

– Qui sto bene, ho ritrovato tutti i miei amici d’infanzia… arriva un momento nella tua vita che hai voglia di tornare alle origini, e costruire una stabilità – Mi confida, pertinente all’istante in cui mi sto rendendo conto che la pizzeria è luogo d’incontro per l’intero quartiere, ha un aspetto alla buona, ogni persona che ne fa ingresso viene salutata da altri… si conoscono tutti. La mia vita è diversa – vorrei dirgli – tra affermazione e solitudine, ma alla fine finisco poco per parlare di me, cosa potrei dirgli? Che forse io ho raggiunto il mio successo, ma che in fin dei conti non ho trovato quell’equilibrio che ha invece trovato lui senza avere nulla? Riesco solo a dirgli che è morto mio Padre.

Usciamo, Andrea e Nella si accendono una Marlboro di compagnia.

– Fumi ancora? –

– Non ho mai cominciato – rispondo ad Andrea, pensando che la prima sigaretta, sei anni fa me la offrì lui, seduti al tavolino nel bar di piazza Tevere. Era una MF (multifilter), ora non le fanno più.

Mentre bevo un Brancamenta, mi viene in mente Pasolini, e di come lui cercava di entrare nelle classi sociali differenti e da come ne se ne affascinava su ogni particolarità lontana dalla sua vita. A queste persone sembra che non manchi nulla, ma forse è solo apparenza?

Arriva Cele, lo zio di Andrea. Un uomo sui sessanta ben portati, brizzolato con gli occhi azzurri. Lo chiamano così perché canta come Celentano. Qui tutti hanno un soprannome, c’è Vicio, Camin, Blund, Sgagna… Provo a sforzarmi di comprenderne il significato, ma mi rendo conto che riguardano delle parole dialettali pavesi che da romano non conosco; alla fine Nella mi fornisce spiegazione: biondo, camino, mangia… e difatti mi rendo conto che Camin ha già spento una decina di sigarette nel suo posacenere.

Andrea lo chiamano André

– Io una canzone me la faccio, andiamo giù? – dice André, riferendosi al karaoke che si sente in sottofondo provenire dallo scantinato. All’apertura della porta in fondo alla scala, arriva un timbro musicale come una brezza improvvisa sul viso. Si apre un’estensione nascosta del locale con dei salottini sparsi ai lati delle pareti e uno spazio che lascia libera una coppia a ballare – stretti in un valzer.

Il primo a cantare è Cele, che canta ‘è l’ora dell’amore’. Mentre suona la sua canzone, ha gli occhi lucidi e Nella mi confida che è rimasto vedovo da due anni.

Quando viene il turno di André, la musica intona la canzone ‘vita tranquilla’ di cui non avevo affatto conoscenza.

Scopro così che André ha un’intonazione quasi perfetta. La musica e la voce di André si diffonde attraverso i tavoli fino a raggiungere il coro delle altre persone che lo seguono nel ritornello. Guardo i visi delle persone e il viso di André, per un attimo ho impressione che queste persone, mentre cantino, indirizzino il viso verso di me … “voglio una vita tranquilla” dicono… e questo messaggio sembra arrivare come mi fosse destinato; ho un’immagine inaspettata tra la lirica e l’onirica, beffa del brancamenta? Poi questa visione si attenua e le persone del locale sembrano riprendere le normali visuali.

Poco dopo risaliamo e per me è venuta l’ora di andare.

Chiudo il baule della mia automobile.

– Ciao André – lo saluto con il suo soprannome e lui sorride. – Non aspettiamo altri quattro anni per rivederci – mi dice. Saluto Nella, c’è ancora la musica che si sente uscire dal locale. Nella e André si allontanano verso casa con lo scatolone di VHS in mano.

– Non ho mai imparato a suonare la chitarra André – dico tra me e lui, pur sapendo che sono ormai troppi i metri che ci separano per permettere lui di sentirmi, così rimane una frase pronunciata nel vuoto di quella piazzetta, tra me è nessun altro.

Salgo in auto, mi avvio sulla strada del rientro.

Accendo la radio, sorte della fatalità – risuona la medesima canzone di André.

 

Justine Fober

Qualche volta la si intravede ancora, la sera, è un’espressione a ravvisarla, una movenza a distinguerla, una luna piena, le pieghe di un abito che ha scelto lui stesso nel suo armadio e che lei indossa da quando egli disse: “ti amo”. Un calice di vino rosso ondeggia in mano al cospetto di un mondo decisamente lontano, un dettaglio minimo del tutto, a molti estraneo, ma comune – maestoso – solo a loro.

E’ Justine Fober, nostalgica su un molo, nel cuore d’un agosto che sognava diverso; la riconosco è proprio lei, quando le brillano gli occhi e non cede più ad un sorriso beffardo. Lei che scruta gli uomini poi sfugge al loro sguardo per non invitarli ulteriormente; lei che ci somigliava, che passeggia lentamente, guardandosi intorno e trascinando in terra un fazzoletto estivo, forse un foulard bianco con una maglia a grana di riso.

Fober… di un etimo incerto, un noema semplice, di una grafia emotiva ed un tratto fragile tracciato su una superficie di velluto grigio, una grammatura consistente che poteva anche reggere il disegno… ed un epilogo disfatto per mano della mia stupida incertezza di uomo.

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Incontro

È così che doveva avvenire.

Pochi minuti dopo la partenza era possibile scorgere ancora il panorama di costiera. La mia posizione virava nel verso di prua del traghetto, la balaustra era bagnata di salsedine e mare.

Tu eri li, con un tubino lungo che vestiva i tuoi fianchi ed una sciarpa viola che ricordava il colore dell’anno. Il cappotto raccolto sulla panchina. Un occhiale sul viso nascondeva lo sguardo che sembrava essere nostalgico. La mia partenza non aveva una meta particolare, ma in quel momento ero incuriosito dal sapere quale fosse la tua destinazione ed ancor di più la tua provenienza. Sembravamo immersi in un quadro di Vettriano.

– Buongiorno – e non sono riuscito a dire di più, ma era così che doveva avvenire. Voltandoti riuscivo a vedere la mia inquadratura nel riflesso delle tue lenti.

– Buongiorno – hai risposto; era così che doveva avvenire.

Poco più avanti una bambina era piegata sulle ginocchia sostenendosi sulla ringhiera, guardava la schiuma disperdersi nelle acque; che fosse tua figlia?

La vicinanza non poteva dare giustificazione valida al nostro silenzio e al corrisposto desiderio di conoscenza… Allo stesso tempo le nostre personalità sembravano avessero già stabilito un dialogo fatto di gestualità e percezioni.

– Beh..? Non dice nulla? –

– Non che sia mai stato di troppe parole,
ma ci sono momenti dove il silenzio
di un uomo ha un tono che può sembrare perfetto. –

– forse la disturbo, non vorrei farle
perdere tempo in frivolezze… –

– Si figuri, l’ascolto volentieri;
ci sono piccole cose che di sciocco hanno solo la sembianza. –

– …mi verrebbe da farle un complimento. –

– Non me lo faccia… –

– Perché? Non le piacciono i complimenti? –

– Più che lusingato, mi piacerebbe essere incuriosito;
dunque non pensiamo a me, mi parli piuttosto di lei… –

– Le darei un vantaggio… –

– Le prometto che contraccambierò ogni suo favoritismo… –

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Rewind

Non esistono delle stagioni, il tepore metropolitano è quasi sempre lo stesso durante tutto l’anno. Una luce pallida, artificiale, evidenzia le tinte della rete di Milano: la gialla, la rossa, la verde. Le musiche sono sempre le stesse, fisarmoniche o violini, timbri che riconducono alle melodie polacche di Bregovic.

E torna come un rewind quel breve racconto, un disco in vinile che continua a suonare non annoiando mai nessun ascoltatore. Lo hanno udito, lo hanno immaginato, lo hanno invidiato… lo hanno persino copiato; e noi lo abbiamo lasciato fare, perché eravamo soltanto noi ad averlo davvero vissuto.

Lui aveva trent’anni, una macchina fotografica, un treno da perdere. Lei di anni ne aveva trentotto, il treno lo aveva già perso, ma non lo sapeva ancora.

Lui scendeva le scale della metropolitana.

Lei le saliva. Lui la vide, lei lo vide… Milano si fermò.

Lui accarezzò con lo sguardo i quindici denari di lucido nylon autoreggente che salivano al piano superiore.

Scavalcò il mancorrente.

Lei insieme alla testa e al treno perse le chiavi di casa. Non si presentò mai all’appuntamento.

I loro pensieri trovarono l’intreccio in un angolo di sotterraneo, i loro passi salirono… salirono su in superficie, fino a lasciare impronte parallele e indelebili nella neve di un parco.

Per un anno non uscirono dalla mansarda del suo Atelier, ma non ce se accorsero mai.

Faceva freddo e faceva anche molto bohémien.

Sotto ordinazioni qualcuno portava piatti da mangiare e libri da leggere. Nonostante tutto mangiavano e con molto appetito.

E tra un delicato amplesso e un fotografare d’istinto, sfiniti di piacere, si leggevano a vicenda qualcosa, a volte persino durante, a riprova che le due cose non erano poi del tutto incompatibili.

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Noi poeti

Noi poeti
un nastro bianco intermittente sull’asfalto
silenzio e tre di notte
serrande chiuse nel borgo di Nettuno.

Noi poeti
non di professione
poveri in un mondo che non ci appartiene;
noi
che imbocchiamo un vicolo secondario
stretto
meno vissuto
meno apprezzato.

Noi poeti che non ci incantiamo davanti a fuochi d’artificio
bensì osserviamo visi scolpiti della gente.

Noi
che traballiamo con vodka in mano
oziando
su gradini sporchi
osservando sandali di donne.

Noi poeti
ebbri di concetti
noi poeti che ci annusiamo
che ironizziamo
che assassiniamo neuroni
che ci sbronziamo per stordire ogni nostra cognizione.

Noi poeti
che contiamo i passi
che osserviamo granuli di sabbia prima delle onde
noi poeti che nuotiamo a riva e camminiamo a largo.

Noi
che ci allontaniamo dall’egocentrismo
che ricerchiamo l’assolutismo;
noi che non abbiamo natura
ma ci riconosciamo in ogni cosa.

Noi poeti che impazziamo per un dipinto
(se acquerello variopinto),
noi poeti che camminiamo con una biro in tasca
un piccolo quaderno
e con pantaloni imbrattati d’inchiostro nero.

Noi poeti che viaggiamo
romanzi persi sui sedili posteriori.

Noi
che manchiamo sempre strada
oltrepassiamo incroci
arrischiamo inversioni,
non badiamo a indicazioni
poiché distratti tra versi di poesie.

Noi poeti a piedi nudi
le cuciture delle scarpe ci tormentano;
noi che sapevamo sognare
noi che sappiamo piangere
che sappiamo ancora ascoltare.

L’abbiamo richiesto noi questo talento?

Ci hanno commissionato emozioni affinché potessimo scriverle.
E gradualmente ogni restante inquietudine
malinconie
solitudini
affanni.

Noi poeti che non saremmo mai soddisfatti.
Noi poeti inutili
noi poeti soli.

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