Eccessi

Mi sento eccessivo.

Morboso. Non mi piace come parola, ma non ne trovo altre al momento.

Mi definisco quasi ossessivo pensando che tu sia un po’ il mio tormento – in senso buono – naturalmente.
Continuo a leggere le tue parole, i tuoi racconti, le immagini che lasci nella mente, le parole non dette e quelle inventate tra le righe.

– mi piace provocare,
ci marcio anche sopra,
ma voglio che tutto sia coinvolgente –

– Cosa intendi per coinvolgente? –

– Lasciarti immaginare,
da uno sconosciuto, in modo che si incuriosisca –

– Farti immaginare nelle sembianze di colei che descrivi? –

– Si, come Rebecca,
ma non mi interessa l’interlocutore che immagina –

– Quindi ti piace essere desiderata? –

– Sì, è quello che mi manca… –

Ho iniziato a scriverti desiderandoti anche io, uno fra i tanti. Ma ho desiderato e ho intrapreso un percorso che potesse restituirmi qualcosa di più: te la profondità del tuo animo. Ho iniziato da un dettaglio per finire a vivere di un sentimento. Ci siamo trovati coinvolti, molto e su questo coinvolgimento abbiamo spesso ragionato.

Mi sembri innamorato – mi dici – provo a pensarci e provo anche ad eludere questa idea che un po’ mi spaventa, un po’ mi piace… ma forse sì, io sono innamorato di te ed ora che lo scrivo sento anche un leggero batticuore.

Mi sento come un sedicenne che si è appena infatuato della sua compagna di banco. Mi sento quell’infinito dietro lo sterno quando ti avvicini e mi sorridi ammiccando lo sguardo e poi mi trovo ingelosito e tormentato, quando tu civetti con il compagno Demarchi che forse è il fico della classe, ma forse vuole solo portarti a letto.

Scuoto il viso e mi passo le mani sulla faccia, ho 44 anni in verità, sono un dirigente nel mio ufficio, un cinico e mai avevo pensato che queste emozioni potessero sentirsi ancora.

– Ma tu sei un’altra cosa… –

– Cioè cosa sono? –

– Tu mi fai stare bene,
con me stessa e come me stessa –

– Ma è come se con me
non riesci mai ad esprimerti così,
forse perché ti senti coinvolta –

– Potrei riuscire e non riuscire,
ma tu conosci le mie sfaccettature –

– Ma perché allora mi escludi? –

– Io non ti escludo… tu sei molto di più… –

Ho iniziato a desiderare soprattutto il tuo desiderio, che è arrivato per un solo attimo e poi si è chiuso dietro una parola desiderata o forse dietro una mia troppo sbottonata, non lo so… non capisco, ma continuo a desiderare che tu possa volermi ancora.

Ripenso ai nostri dialoghi, ai tanti, al mio incalzarti per riflettere meglio su quanto tutto accaduto e sta accadendo.

– è come se tra me e te ci fosse del pudore rispetto a ciò
che sogniamo, desideriamo… fantastichiamo e scriviamo…
è come se avessimo paura, ma non so di cosa… –

– Perché io e te siamo autentici –

– ma per essere autentici non è necessario
reprimere una parte di se, non trovi? –

– Certo ma ci vado cauta,
perché a te ci tengo e piuttosto ci metto di più… –

– anche io mi sento protettivo nei tuoi confronti…
ma secondo me le paure sono infondate…
non ti senti un po’ incompleta alla fine…? –

– Si certo.. ma è molto difficile da spiegare…
lo voglio e al tempo stesso ho paura.
Ti chiedo solo di avere pazienza –

Mi dici di aspettare, di darti tempo.

In questo tempo ti vedo sempre più alle prese con i tuoi racconti, intimi, carnali pieni di fantasie e raccontati ad altri.

Fantasie che non sono nostre, fantasie che non sogni con me, che forse non sogni e basta…

Dovrei pensare che le metti li senza un motivo preciso, ma non riesco a rimanere emotivamente distante da un senso di invidia e di gelosia profonda. Vorrei fingermi uno di quei cretini corteggiatori e mettermi a flirtare con te, così senza un perchè, così solo per sfiorarti, così per gioco e leggerezza…. ma poi forse così senza un senso.

Perché io quelle fantasie le sognavo e le sognavo con te, per te, le sognavo per compiacerti, le sognavo per sentirti sempre più mia.

E’ molto triste, ma mi accorgo che involontariamente sto scrivendo con il verbo sbagliato, passato, quando invece i miei sentimenti sono al presente e così profondamente presenti, presenti in me…

presenti soprattutto per te.

La barba

…improvvisamente mi sveglio…

…non è una di quelle scene nel sonno che di soprassalto uno si sveglia da un sogno, no… è esattamente il contrario; io mi sveglio – mi sveglio dal quotidiano all’interno di un sogno.

Sono in una casa che non riconosco, ma è come se l’orientamento l’avessi nella memoria e in breve lasso di tempo recupero qulla sensazione di cognizione e appartenenza propria del sogno.

Tutto l’ambiente diventa così familiare e nostro.
Nostro nel senso di mio e suo, perché so già che lei è qui, nelle stanze, nel mio sogno.

Mi sveglio dicevo e sono in un letto, somiglia al risveglio di una qualsiasi mattina di domenica.
La luce passa tra le finestre di questa stanza shabby, bianca, con le tende che fanno un leggero movimento mosse da un’aria impalpabile.

C’è un tiepido clima che sembra voler preannunciare la conclusione di una stagione fredda e l’apertura della prossima primaverile. E’ tutto in penombra, si sente il rumore di una lavatrice nel mio dormiveglia e l’acuta interpretazione di una musica di James Last.

Mi alzo e mi avvio verso il bagno. Il corridoio è illuminato dalle finestre laterali. Alle pareti quadri riprendono dettagli di lei – fotografie in bianco e nero dei suoi capelli, dei suoi occhi… dei suoi fianchi… delle sue gambe – che li abbia scattati io?

Ho i piedi scalzi, il pavimento è freddo. La camicia del pigiama ha i bottoni aperti… l’aria mattutina che soffia nel corridoio mi risveglia come beccandomi il petto.

Arrivo allo specchio e mi guardo la barba incolta – so che a lei non piace.
Prendo il rasoio e cerco il barattolo di sapone Panama.

Sul mobile non c’è.

Controllo nella pochette che utilizzo per i viaggi, che l’avessi lasciata a Mestre?

Non c’è.

Poi mi accorgo che anche il pennello da barba non è al suo posto e ricordo benissimo di averlo visto la sera precedente. Mi riavvio verso il corridoio per andare nel bagno di Rebecca.

Oltre la porta a vetro piombato si nota il muoversi delle sue ombre corporee; busso delicatamente e le parlo dall’uscio sottile:

– hai visto per caso il mio sapone e pennello da barba? –
– Li ho presi io… vieni, entra pure… –

Si lascia così sorprendere in accappatoio con le creme aperte sullo sgabello il legno, un piede si sorregge sulla vasca mente le mani massaggiano la parte superiore della gamba, come se tutto fosse naturale come sempre.
– Guarda è li, te li ho presi in prestito stamattina, non potevo svegliarti… dormivi così bene: Buongiorno! – lo dice con un sorriso ed un timbro di rimprovero per il mio solito difetto: irruzione senza prima aver la gentile educazione di salutare.

Il pennello è bagnato e il barattolo ha un residuo di schiuma bianca sulla scritta.
– ma da quando in qua ti fai la barba? – Le dico con un ironico timbro su un risolino accennato, ma non riuscendo bene a comprendere perché non avesse utilizzato la sua ceretta abituale.

– da stamattina… erano folti e li ho tagliati tutti… – mi risponde.
– ma non usi la ceretta? –
Mi guarda e poi scoppia a ridere – sai che dolore…!

Ride, ma io non capisco.
Dopo le risa, chiude il coperchio della crema aprendo invece qualche altra lozione oleosa. Abbassa la gamba destra trattenuta fino in quel momento variando sulla sinistra che si alza a raggiungere l’orlo della vasca da bagno.

In quel preciso istante l’accappatoio si apre leggermente sull’inguine scoprendo il triangolo nudo e latteo di contrasto con l’abbronzatura.Improvvisamente riesco a ricollegare tutto; l’inguine non ha può alcun pelo, è nitido, pallido, mostra distintamente la fenditura rosa, carnosa.

Poi improvvisamente Rebecca si alza dando una stretta alla cinta di spugna. Distolgo lo sguardo imbarazzato per il tempo in cui sono rimasto intontito.

Si avvicina… abbracciandomi da prima sul collo e poi toccando il dito la mia barba.

– Ora vai a toglierti questa barba così trascurata e comunque grazie! Non ti dispiace se lo prenderò in prestito ancora vero? E’ un’ottima schiuma e poi il pennello massaggia divinamente bene… –

Esce verso la casa… mentre io rimango imbambocciato e con il solito senso di assoluto disagio, con il pennello ed un barattolo in mano.

Equilibristi

E’ un crocevia di sensi

questo equilibrio costante

di sentimento e sensualità.

Il tenerti sul mio petto

compiacerti tra le leghe dei tuoi capelli mossi

questi cuori che sussultano

anche dentro corpi distesi in ozio.

L’essere avvinghiato tra le tue gambe

e sentirne il calore, il liquido di desiderio

questi cuori che non reggono d’emozione

Questi occhi chiusi nell’amplesso.

E unirsi lasciandosi dominare dagli istinti

quando ti afferro per i capelli

e mi senti ovunque

quando vuoi che sia tuo

e non mi lasci respiro per tornare ad essere mio.

Emotività

Io sento di fare l’amore con te anche quando parliamo del tempo che fa, quando parliamo della musica, quando parliamo di una vacanza, quando parliamo del tuo cane o quando stiamo in silenzio e non parliamo e non diciamo più nulla.

Quando il tempo suona di un respiro, suona di parole non dette e suona di parole fraintese.

Allora è proprio lì che sento di essere in te, quando ci allontaniamo e poi ci riprendiamo, quando per un istante rischiamo di perderci, ma poi prendiamo freneticamente a ricercarci.

Allora è proprio lì che avverto di averti con me, quando sento quella tua paura che sa solo di una grande emozione, poiché non esiste legame che non abbia un sottile senso di timore, timore di sbagliare, timore di perdersi, timore che tutto sia accaduto…

…timore di chiedersi come possa essere successo tutto questo…

…timore che si chiede se è giusto, se sia sbagliato… un timore che secondo me si fa troppe domande sempre.

Un timore che può essere preceduto solo dalla fiducia, quella che deve nascere, che deve accrescere attraverso il tempo e la conoscenza l’uno dell’altra.

Quando ci fideremo di noi, non ci sarà suono che ci disturberà, non esisterà più equivoco, ci sarà solo comprensione e devozione l’uno per l’altro.

E se ancora è presto per fidarci… allora affidiamoci a questo volerci bene… perché è solo – di farci del bene – che stiamo parlando.

Te lo sussurro ancora una volta: Ti voglio bene… e ti voglio….

 

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Il buio

– Ho notato che mi hai assecondato sull’indossare la mia camicia –

– E’ vero, ero restia inizialmente, ma poi ho deciso di fare la ragazzina ubbidiente –

– Mi chiedo fino a che punto tu possa essere così disponibile –

– Dovremmo provare per saperlo entrambi, non trovi? –

Il sussurro delle parole si perdevano nel buio, cosi intimo e cosi al riparo.

Ti sentivi bene e ti sentivi mia. Quella sensazione di oscurità ti faceva pensare a tanti significati.

Ti faceva pensare al mio lato nascosto, quello che forse non conoscevi ancora. Ti faceva pensare alla tua zona buia, quella che anche tu non comprendevi ancora, ma che sentivi emergere in te in quell’istante, ora che trovavi protezione nella condizione favorevole di un’ombra.

Sì – quel buio in qualche modo ti intimidiva e ti proteggeva.

L’oscurità ti facilitava lasciando emergere quella parte di te, quel tuo alter-ego, che non avevi mai liberato prima.

– Cosa vuoi che faccia per te? Dimmi… –

Nel momento che pronunciavi quelle parole, mi sentivo conferire un ruolo al quale non volevo in nessun modo rinunciare. Non ho impiegato molto tempo a pensare cosa volessi. Nell’immaginario volevo vivere, condividere con te, uno dei tanti momenti che ci tenevano durante la distanza vicini, uniti. Volevo lasciartelo fare in quel momento, dove potevo avvertire il tuo respiro, ascoltare le tue parole… e offrirti il vantaggio del buio.

– Siediti sulla poltrona e allarga le gambe per me, in modo che io possa vedere –

Non ti sei neppure domandata come avrei potuto vederti in assenza totale della luce. Non te lo sei chiesta perché intendevi qual era il mio gioco: pensare di osservarti, senza violare il tuo pudore e la tua timidezza.

Sentivo il suono dei tuoi tacchi che con due passi indietro si allontanavano da me. Io intanto mi sedevo comodo sull’angolo del letto, cercando di capire attraverso i suoni la direzione verso la quale avrei dovuto guardarti.

– Allarga le gambe per me e scosta gli slip, voglio guardartela… –

Non parlavi, sottostavi… e sentivo il suono del cotone muoversi e il battere dell’elastico sulla pelle. Immaginavo quanto doveva essere bello pensarti li, distesa sulla poltrona morbida, con il lembo scostato delle tue mutandine e una gamba poggiata sul bracciolo e un’altra sospesa in aria. Potevo solo immaginarlo.

– Va bene così? Mi stai guardando? –

– Sì, ti sto guardando, mi sto godendo lo spettacolo… –

– Sono brava? –

Mi sono alzato nel buio per avvicinarmi alla tua voce e dopo un passo avvertivo premere la punta sospesa del tuo tacco sui miei jeans. In quel contatto, piantavi entrambi i piedi per trovare una posizione più comoda.

– Continua così, lo sai che sei proprio brava e ubbidiente… –

Dal movimento che calcavi su di me si poteva intuire che ti stavi frugando, coccolando con le mani la fenditura umida e rosea della tua carne. Lo capivo anche dal rumore; era un missaggio di suoni alternati, tra un tono umido di un succo spremuto e una vibrazione di un corpo pressato. Il suono era anche accompagnato dai tuoi spasimi che non contenevi per l’eccitazione.

Anche l’odore era intrigante, tra la tua fragranza di Casmir e l’aroma dell’eccitazione.

– Sono tutta un lago… guarda… sono tutta un lago per te… –

Le tue gambe si dimenavano tra le contrazioni e la voglia di avvinghiarmi. Il suono del tuo piacere si faceva sempre più intenso; voleva pronunciarmi qualcosa che rimaneva trattenuto nelle labbra per il tuo insensato pudore.

Il piacere viaggiava verso un limite osteggiato solo dalla tua intransigenza. Pensavo che ti piaceva andare oltre ogni violazione, verso la trasgressione, provare a varcare quei confini con me, che fino a quel momento ero riuscito ad accompagnarti distesa su quella poltrona. Ma io non avevo intnzione alcuna di sollecitare una decisione che volevo fosse solamente tua.

E mentre con una mano accarezzavo con un gesto tenero e delicato le tue caviglie, un avviso inaspettato e complice accese il tuo cellulare poco distante.

La luce debole lasciava intravedere appena i miei e i tuoi occhi. Si guardarono per la prima volta e per alcuni secondi. I tuoi erano spalancati e avidi. I miei rincuoranti e austeri. Nel momento successivo, mentre provavo a abbandonare la tua vista per contemplare l’amore tra le tue gambe, la luce si spense fatalmente.

E io ricordo bene che in quel secondo non feci in tempo a guardarti, ma nell’istante dopo, tutto quello che mi sembrava ormai destinato, fu ridiretto dalla tua volontà, dal tuo coraggio e dalle tue parole:

– Accendi la luce… ti prego… accendi la luce e guardami… –

Il mio ingresso

Ero entrato nell’appartamento poco in anticipo rispetto alle sedici.

Dopo aver chiuso la porta alle spalle, ho udito la tua voce provenire dalla stanza da letto:

– Sei tu? –

– Sì sono io, ma rimani li… non muoverti… –

Come da copione studiato, mi ero avvicinato all’interruttore generale facendolo volontariamente scattare. Un abile gesto, programmato e allo stesso tempo per te inaspettato.

Volevo che fosse così il nostro primo incontro: ‘al buio’ – nel termine abituale del nostro frangente – e anche: ‘nel buio’ – a figurare ancora di più la situazione che avevamo creato.

– …ehi ma che succede? –

– devo aver fatto saltare la luce, non ti muovere rimani lì che controllo –Cercavo di rassicurarti e rasserenarti, ma le mie intenzioni erano ben diverse e ben stimolanti.

Sapevo bene come muovermi nella mia casa, anche nell’oscurità più completa. Le imposte non davano esito ad un barlume di luce; non c’erano luci di emergenza o spie luminose. La mia direzione non era di certo quella verso il contatore; mi avvicinavo lentamente nel senso della stanza facendomi strada con una mano lungo la parete.

– sono io tesoro, non preoccuparti – te lo dicevo a pochi metri ormai da te, mentre ancora mi muovevo per provare a trovarti.

– ma la luce? –

– l’ho spenta, lasciala così, …dove sei? –

– ma che succede? Cosa stai facendo? – Su questi tuoi incerti interrogativi finalmente trovavo il contatto con te e ti prendevo per una mano.

– sono qui, non preoccuparti, se vuoi la riaccendo o se vuoi fidarti di me… la lasciamo così, ma dimmi tu… cosa vorresti fare? –

Nel tuo silenzio ambiguo e nell’oscurità di quell’istante, prendevo la tua mano e l’alzavo per poterle dare un bacio. In quel momento rimanevi dubbia tra timore di non sapere e il piacere di poterti affidare.

Te lo ripetevo: – dunque? Accendo la luce? –

Esitavi ad una facile e possibile risposta.

Volevi forse rispondermi infastidita: – cosa stai facendo, voglio vederti! –forse pensavi a qualche inganno. Potevi anche pensare che potessi non essere io, ma la voce lo era, era quella che tu conoscevi molto bene.

– ma sicuro che sei tu? …ma sei tu? – me lo ripetevi con un sorriso, divertita, mentre muovevi le mani su di me per cercare i lineamenti del mio viso. Riprendevi il possesso dei segni di riconoscimento, i capelli che mi accarezzavi, gli occhiali, il naso… le mie labbra, che le disegnavi con un dito.

E proprio sulle labbra stesse sentivi ormai ogni tua certezza.

– si sei tu, queste sono le tue labbra –

– inconfondibili? – ma non sono riuscito neppure a pronunciarlo quell’interrogativo del tutto che in un attimo ti ho sentito stringerti a me e un’istante dopo che le tue labbra prendevono a baciarmi assecondate e compiaciute di quel momento.

Il soggiorno

Ti avevo proposto di vederci in quell’appartamento che affittavo giornalmente. Potevi essere tranquillamente un’ospite fra tanti e nessuno poteva sospettare qualcosa sul nostro piano.

Ti avevo mandato le istruzioni per il check-in come normalmente avveniva per ogni prenotazione:

– Puoi ritirare le chiavi in via Enrico del Pozzo al Bar Marconi dal proprietario Lorenzo, ti offrirà un caffè e ti consegnerà il pacchetto con dentro le istruzioni; seguile diligentemente. –

All’interno del pacchetto nero le istruzioni non erano tuttavia quelle abituali; non spiegavano di certo le regole dell’appartamento, erano riformulate su misura rispetto al nostro incontro e soprattutto erano reinventate con attenzione a te.

Il Bar Marconi sapeva di tabacco e spezie. Al posto del caffè avevi preso del tè nero.

Lorenzo dall’altra parte del bancone ti aveva domandato qualcosa con la sua solita curiosità e forse anche incalzando dell’interesse verso una donna che veniva a soggiornare sola. La cosa ti aveva alquanto infastidita e glissavi risposte per tagliar corto, cercando di non dare allusioni a proseguire. Tu non eri lì per nessuno se non per me.

– Ringrazi il proprietario per il tè di benvenuto, ci terrei che lo venga a sapere –

Lo dicevi trattenendo l’ironia dentro di te, un’ironia in quel momento affine solo ad un pensiero occultato che custodivi in te molto scrupolosamente.

Avevi salutato Lorenzo incamminandoti così verso il civico dell’alloggio.

Nel pacchetto appena aperto erano presenti due chiavi: una verde del portone condominiale, l’altra blu per la porta dell’appartamento a destra del secondo piano.

Appena entrata prendevi un momento l’orientamento ricollegando immagini ed oggetti che avevi visto in foto con gli spazi circostanti che ora sfioravi; le mie fotografie, i libri, i quadri, tutto un po’ sapeva di me.

Lasciavi la tua borsa e il tuo paltò sulla poltrona per avvicinarti al tavolo e svuotare il pacchetto frettolosamente e mettere mani alle istruzioni ancora da leggere.

I quattro lati del fogliettino si aprivano con fretta curiosità tra le tue mani.

“Apri l’armadio in camera e troverai una sola cosa: una mia camicia.
Vorrei che tu la indossassi e per il resto lascio fare a te…
Chiuditi a chiave. Togli le chiavi dalla serratura, io entrerò con le mie.
Non aprire le imposte, lascia tutto chiuso come hai trovato.
Aspettami comoda in camera da letto; arrivo alle 16.00 in punto.”

Leggevi quelle parole dapprima un po’ titubante e subito dopo con un senso di eccitazione e strana remissività. Ti trovavi in una situazione nuova. Mai avevi pensato a come ti potesse accendere l’idea di darti delle istruzioni da seguire con dedizione.

Nel momento che aprivi l’armadio e ti ritrovarti davanti la mia camicia appesa, hai iniziato a riflettere se dovevi farlo oppure no. A te piaceva portare sulla pelle le mie camicie; me lo avevi svelato più di una volta e più di una volta lo raccontavi come una tua particolare fantasia e allora perché privartene in un momento come quello dove tutto era possibile?

Non hai esitato ulteriormente.

Hai iniziato con condiscendenza a sbottonare il tuo vestito intero per ritrovarti indosso solo il mio cotone che cadeva come una sottana sopra i tuoi slip. Hai ricalzato le scarpe Décolleté con disciplina per farti trovare ancora più accattivante e in po’ semplicemente perché ti infastidiva sentire il freddo pavimento sotto piedi.

Davi l’ultimo sguardo all’orologio da muro che segnava ormai le 15.50.

Ti sedevi paziente ed impaziente ad attendermi.

Bar Dolce Tentazione

Gli attimi che precedono il nostro incontro sono emozionanti.

Si unisce il senso di liberazione all’eccitazione nel susseguirsi di attimi di timore.

Le domande infatti sono tante: cosa accadrà? Le piacerò?

E non penso al: – mi piacerai? – le incertezze difatti si fermano rispetto a ciò che tu possa scoprire nello stacco tra le conversazioni scritte e trovarmi davanti ai tuoi occhi.

– ti aspettavo diverso – ma sei davvero tu? –

Il timore si muove attraverso quanto non conosciuto e che probabilmente nessuno dei due ha mai vissuto; è una situazione decisamente nuova per entrambi.

Mentre guido mi esamino al retrovisore, distraendomi anche dalla strada.

Ho un po’ di occhiaie, non ho mai capito se sto meglio con gli occhiali o senza. Sono invecchiato, penso, non ho più trent’anni, si vede l’espressione del tempo sulla pelle del viso. Le paure aumentano e le distolgo nel gesto di riposizionare lo specchietto nel suo verso e premendo l’acceleratore sulla guida.

Il bar scelto è molto vicino, sono in ritardo e dovrei probabilmente già trovarti seduta in terrazza.

Ti riconoscerò? Mi riconoscerai?

– Sono arrivata, ti aspetto. – un tuo messaggio mi avvisa della tua attesa.

Parcheggio, chiudo l’auto, fa caldo ormai per la giacca, ma mi dà un tono e la tengo su.

Salgo gli ultimi gradini e sono finalmente ad un passo da te.

Ti riconosco, difronte, ma tieni in mano un menù con la pubblicità del “cuore di panna” sul retro, che copre completamente il tuo viso. Scorgo i tuoi capelli mossi e inconfondibili. Manca poco e i miei occhi potranno vedere finalmente i tuoi.

Mi fermo un attimo rispetto a questo momento di vantaggio. Non ti sei accorta della mia presenza e ne approfitto per guardarti e osservare i tuoi movimenti, tra il bagliore del mattino che attraversa gli alberi sopra di noi e che accentua i tuoi riflessi.

Dici sempre di non indossare la gonna, ma per me l’hai messa. Un piccolo dettaglio che mi compiace del gesto e del tuo modo di essere – con me – più libera e più te stessa.

Sei sensuale, di una sensualità naturale, spontanea, non artefatta. Ma so di essere di parte, mi piaci troppo per il tuo modo di essere e per quello che abbiamo saputo costruire con le parole.

– Buongiorno Signore, desidera accomodarsi? – il cameriere sopraggiunge lateralmente e interrompe il mio incantesimo. Anche tu ascoltando la sua voce, vieni catturata dall’attenzione e abbassi il menù dei gelati.

Ora abbiamo gli occhi negli occhi.

I tuoi occhi felini e i miei occhi scuri.

Per te solo

Eluderei i desideri, riaffiorando nostalgie, riempendomi di rimpianti.

Rinuncerei ai giochi proibiti, agli abusi che forse ho palesato senza troppo pensarci.
Farei a meno degli intenti, quelli più perversi, che ho inventato per te, per farti stare bene… per realizzare i tuoi sogni.
Scriverei meno racconti erotici e più lettere d’amore.
Farei il reso per un regalo promesso; volevo farti sentire come potevo starti indosso.

Annullerei l’invito in un luogo segreto, che era così nascosto da essere ancora inconfessato.

Ma non rinuncerei mai ai tuoi occhi, mai al tuo abbraccio…
…mai ai tuoi sentimenti, mai al tuo animo.

Non rinuncerei alla tua voce, al tuo suono, al tuo silenzio e ai tuoi pensieri per me.
Non rinuncerei mai a te.

Incipit

Ogni volta che scrivi un incipit, mi metto a leggerlo e rileggerlo con attenzione per ricercare qualche assonanza di noi, dei nostri dialoghi, delle nostre fantasie.

Certe volte mi accorgo di alcuni dettagli che possono sembrare i nostri, ma forse in realtà è solo una strana fatalità…

Altre volte leggo qualcosa del tuo passato e penso che poteva appartenerci, ma forse è solo una mia invidia per qualcosa che non ho vissuto…

Poi ci sono le parole scritte forse con leggerezza, sulle quali tu dici di non dare peso, ma sulle quali qualcuno un peso ce lo mette…  …ed io finisco stupidamente per ingelosirmi….

Ci sono quelle parole piene di desiderio, che anche se non lo sono, io le faccio mie, le rendo nostre, avidamente…

…perché mi piace pensare di poter essere all’interno di ogni tuo desiderio.

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